“Ringrazio dal profondo del cuore la popolazione dell’Australia per avermi accolto in una nazione sicura e democratica, dove ho avuto la libertà di scrivere questo libro – libertà che mi è stata negata nel mio paese natale, l’Iran”.
Così scrive Shokoofeh Azar, la scrittrice e giornalista iraniana, in calce al suo romanzo “L’illuminazione del susino selvatico”, edito in Italia da e/o per la traduzione dall’inglese di Silvia Montis e che è stato finalista all’International Booker Prize 2020. Un libro particolare che intreccia la dura realtà dell’Iran di Khomeini con l’immaginario, al limite del fantasy, un tentativo di fuga, che si rivelerà inutile, da quella realtà. L’immaginario si svolge tutto tra i boschi del Mazandaran, una regione al nord dell’Iran che si affaccia sul Mar Caspio, ricca di foreste, non lontano da Teheran.
Il romanzo comincia così: “Beeta dice che mamma raggiunse l’illuminazione esattamente alle 14,35 del 18 agosto 1988, in cima al susino più alto del bosco, su una collina che dominava tutte le cinquantatré case del villaggio, accompagnata dal solito rumore di pentole e padelle fregate a fondo che ogni pomeriggio svegliava la foresta dal suo letargo. In quello stesso istante, bendato e con le mani legate dietro la schiena, Sohrab veniva impiccato (…) e senza sapere che l’indomani all’alba sarebbe stato sepolto insieme a centinaia di altri prigionieri politici in una lunga fossa nei deserti a sud di Teheran, senza neppure un segno o un’indicazione, per timore che un parente, anni dopo, potesse dare qualche colpetto sulla lapide con una pietra e mormorare Non c’è nessun dio al di fuori di Dio”.
Ecco, questi due piani narrativi, più che alternarsi, si compenetreranno per tutto il romanzo raccontando, per la voce di Bahar, una bambina di tredici anni, la storia di una famiglia, quella di mistici, poeti e filosofi, che vedrà i propri ultimi componenti travolti dalla tragica rivoluzione di Khomeini, a cominciare da quel Sohrab che abbiamo incontrato nelle prime righe, il figlio maggiore che verrà ucciso dai fanatici Guardiani della Rivoluzione, fanatici che l’autrice non esita a paragonare ai nazisti per la furia distruttrice della quale si riveleranno essere portatori. Esemplare, a tale riguardo, le pagine in cui i libri del padre vengono presi dalla loro casa per essere messi al rogo in piazza: tanti titoli della filosofia e letteratura antica e moderna, un elenco che prende più pagine e che lascia annichilito il padre, il quale per sette giorni non parla, finché ripresa coscienza di sé non prende tanti bloc-notes e penne e dice alle figlie di scrivere tutto quello che ricordano dei libri che avevano letto per farli rivivere. Per quaranta giorni non alzarono il capo, ricostruendo con la memoria ogni dettaglio, ogni pagina. “Con la resurrezione di autori e personaggi, filosofi, mistici e poeti, compositori e pittori, anche voci e canzoni, mormorii, bisbigli e risate si fecero di nuovo strada nella nostra casa. Di nuovo si riempì di un barlume di luce e di poesia”.
Luce e poesia che attraversano molti capitoli, oscurati dalle incursioni dell’Iran khomeinista che a poco a poco spazza via tutto, penetrando anche nei boschi del Mazandaran seguendo la storia di quel periodo con le sue repressioni, la rigida presenza della cosiddetta “Polizia morale” che non tollerava neppure che due fidanzati si tenessero per mano, pena la galera e punizioni, ma con il coraggio delle piccole azioni che sembrano ancora aprire alla speranza. Accade quando, passata l’autopattuglia della “Polizia morale” con due donne in chador e due uomini in uniforme militare, il padre di Bahar vede i due fidanzati riprendersi per mano “al riparo dei ‘loro’ occhi, come a dirsi ‘Non preoccuparti, amore! Passeranno anche i tempi difficili”.
Ma tutto ciò, e qui sta la costernazione che in sottopelle attraversa il romanzo, senza un perché. Quel perché che invano un bambino chiede a Khomeini chiuso nei suoi monologhi davanti allo specchio in cui si rimira, vantandosi di essere uno votato da milioni di persone, uno che ha guidato una guerra di otto anni, uno che ha portato l’Islam fino agli angoli più remoti della terra, perché l’Islam dev’essere universale. Perché? Gli chiede il bambino, che ad altre risposte di assoluta arbitrarietà di Khomeini, continua a chiedere ancora e ancora: Perché? Perché? Perché? Alla fine Khomeini aggrottò le folte sopracciglia e “Quando gli occhi gli caddero sullo specchio si sentì di nuovo fermo e risoluto, ma non appena spostò lo sguardo sul bambino che lo osservava appoggiato tranquillo alla parete, capì di non essere altro che uno stupido balbuziente, incapace persino di spiegare il più grande traguardo della sua vita, per il quale aveva ucciso, o esiliato in terre straniere, migliaia di uomini”. Una sensazione di smarrimento che deve essere di molti, non solo dittatori, ma anche capi di Stato o premier se hanno la forza o l’occasione di chiedersi perché sono arrivati dove sono arrivati. E credo che non serve arrivare all’Iran di Khomeini o alla Germania di Hitler o all’Unione Sovietica di Stalin, con i loro morti ammazzati, i loro perseguitati, i loro prigionieri ed esiliati per chiedersi: perché? Basta molto meno. È sufficiente guardarci intorno e assistere al teatrino di una politica a cui nessuno ancora chiede: perché? Come, nella bella metafora del romanzo di Shokoofeh Azar, fa il bambino, la voce dell’innocenza, a Khomeini.
Il rischio che corriamo è quello di ritrovarci come la mamma di Bahar a odiare la vita dopo la Rivoluzione khomeinista da non riuscire più a guardare il passato: “temeva che persino l’oggetto più piccolo le ricordasse la felicità perduta”. E, per questo, aveva lasciato che i ratti e le termiti scorazzassero per la casa distruggendo, mangiando, infestando ogni cosa che aveva abbellito e dato un senso a quella casa. E di ritirarci in cima a un susino selvatico. Seppur anche lì vedremo che la stoltezza (e la violenza) umana avrà, come un virus, la forza di raggiungerci e travolgerci.