Se Reincarnation Blues di Michael Poore fosse un momento della vostra vita sarebbe quella gita un po’ psichedelica con gli amici dei vent’anni che avete fatto ad Amsterdam per espandere la vostra mente (diciamo così). Eppure questo è un romanzo che parla sostanzialmente di morte. Anzi, tantissime morti. Ma lo fa con un tono che fonde l’esilarante al sentimentale, l’apocalittico all’ultraterreno, l’inverosimile alle profondità più vere della nostra anima.
Protagonista è Milo, un uomo talmente attaccato alla vita da averne già vissute 9995. Perché ogni essere vivente, nel mondo paraspirituale ideato da Poore, ha a disposizione 10mila vita per raggiungere la Perfezione e quindi ricongiungersi all’Anima universale, altrimenti finisce nel Nulla. La maggior parte degli individui ci mette meno vite, alcuni pochissime, il Buddha solo una; Milo, invece, ci ha preso gusto, anzi si è proprio innamorato di questo ciclo di morte e rinascita. A dire il vero si è innamorato della Morte stessa, un’incarnazione della Morte che ha le fattezze eteree di una donna di nome Suzie.
Quasi ogni capitolo racconta una o più vite di Milo, che è stato il bambino di uno sperduto villaggio asiatico catapultato dall’altra parte di un dirupo, oppure un saggio surfista dei giorni nostri che finisce divorato da uno squalo, o un discepolo di Buddha che avvelena se stesso e il proprio maestro con dei funghi velenosi, o ancora un giocoliere che lancia in aria elefanti, uno psicopatico anaffettivo con la passione per i fucili o (forse la storia più bella, quasi un libro a sé) un ragazzino del futuro con poteri telecinetici che a stento sopravvive ai soprusi di una colonia penale dove ogni briciolo di umanità si è spento. Milo assume tanti nomi, tante diverse abilità, vive tanti amori e tanti dolori. Ma due cose non l’abbandonano mai: l’asma e l’incapacità di comprendere che cos’è quella Perfezione che dovrebbe così tanto inseguire.
«La morte è una porta. Ci passi attraverso più e più volte, ma ogni volta ti terrorizza», ammette a un certo punto il protagonista. Eppure man mano che le sue reincarnazioni si susseguono comincia a possedere sempre maggiore coscienza, non solo delle sue altre esistenze, ma anche della trama impercettibile, per certi versi assurda e per altri studiatissima, che regola l’universo, i sentimenti, lo spirito umano. Sarà infatti quando rischierà di perdere la sua adorata e letale Suzie che la via dell’illuminazione gli si paleserà sempre più chiaramente di fronte: «Amare significa essere strappati in due», dice prima di realizzare che morire non è altro che ricucire quello strappo.
Le pagine di Reincarnation Blues scorrono veloci e avvincenti, ma soprattutto appassionanti ed esilaranti come raramente accade a un libro che parla sostanzialmente della fine dei nostri giorni. Anche se ogni tanto lo stile di Poore non regge l’architettura immaginifica e pregna di senso che ha ideato, tutto si legge con grande curiosità, per capire quale sarà la prossima dimensione, la prossima invenzione, la prossima freddura insolita e sorprendente, che mescola serio e faceto, empireo e super-terreno («Milo sentì che le loro anime venivano spalmate come burro d’arachidi»).
Forse è proprio questo l’aspetto più sorprendente di questo romanzo: non fa altro che parlare di morte e tuttavia riempie il lettore di vita. E senza quei discorsi melensi e seriosi su cosa significhi lasciare questo piano dell’esistenza o su cosa ci aspetta di là (una città in riva al fiume, divisa fra villette a schiera e baraccopoli, direbbe Poore), ma attraverso una lunga, entusiasmante e spesso buffa cavalcata. Una cavalcata che darà aria nuova alla vostra concezione dell’esistere. Come in quella bellissima gita ad Amsterdam in cui vi è sembrato solo di esservela spassata e di aver pensato a tutto fuorché alle cose serie, ma poi siete tornati a casa capendo che questo viaggio vi ha in realtà insegnato tantissimo, lasciandovi un segno che accarezzerete con affetto per il resto di questa vita. E di quelle ancora a venire.