Ieri era la Persia, oggi si chiama Iran. La storia di questo paese vista attraverso tre generazioni di una famiglia: a raccontarla però è qualcuno che quella storia vorrebbe seppellirla per riuscire a mimetizzarsi e non sentirsi straniero nella sua seconda patria.
La protagonista di questo strepitoso romanzo d'esordio, Kimia (ha molti punti in comune con l'autrice) è infatti nata a Teheran nel 1971 e poi emigrata a Parigi all'età di 10 anni, insieme a genitori e sorelle. Un esilio causato dalle idee politiche del padre, intellettuale e giornalista impegnato contro ogni regime, prima quello apparentemente aperto dello Scià, poi l'altro reazionario di Khomeini.
Crescendo il suo primo obiettivo è tenersi a distanza da quella cultura ingombrante, passando per un'adolescenza ribelle: il punk, le esperienze con la droga, la vita nomade al seguito di gruppi rock, l'incessante ricerca di un'identità personale e sessuale. Tutti i suoi sforzi per "disorientalizzarsi" però si sbriciolano il giorno in cui si ritrova in una sala d'ospedale per portare a termine una procedura di inseminazione artificiale: la tensione dell'evento fa riemergere i ricordi, trasformandola in una sorta di Sherazade moderna che ci immerge nel vivido caos dei Sadr, facoltosa tribù segnata da un insolito marchio di fabbrica (gli occhi azzurri come il Mar Caspio).
Ecco i bisnonni con i palazzi e l'harem, la misteriosa nonna Nur, la volitiva madre Sara e il testardo e snob padre Darius. Procedendo a zig zag nel tempo le storie della famiglia si accavallano e si intrecciano con quelle del Paese, passato dal feudalesimo alla smania di modernità e occidentalizzazione, per poi riannodarsi con quella più intima del presente di Kimia, in attesa di un nuovo futuro.