Bello questo titolo, “Disorientale”, con il suo duplice suggerimento che risulterà sempre più chiaro mentre procediamo nella lettura- il senso di disorientamento di chi ha dovuto lasciare il proprio paese e trapiantarsi in un’altra cultura, un altro mondo che parla un’altra lingua e che pensa in un altro modo, e il desiderio di occidentalizzarsi per passare inosservato, di staccarsi dall’oriente che viene percepito come retrogrado e limitante.
La voce della scrittrice si sente nella storia che racconta, la saga di tre generazioni della famiglia Sadr, dal vecchio patriarca che vive con mogli e figli nella città di Qazvin, ai piedi dei monti Elburz in Iran, a Darius Sadr, padre della protagonista Kimiâ, che si schiera con l’opposizione allo Shah, prima, e all’ayatollah Khomeini, poi, in una Teheran che retrocede dalla modernità voluta e forzata dai Pahlavi all’oscurantismo degli integralisti islamici.
Quando incomincia il suo racconto, Kimiâ è una giovane donna che vuole diventare madre ed è in attesa dell’inseminazione artificiale nell’ambulatorio parigino della struttura ospedaliera specializzata. E’ iniziato il processo per portare al mondo un nuovo piccolo essere- il modo in cui il bambino sarà ‘concepito’ è talmente diverso dal retaggio famigliare che Kimiâ si porta dietro, il nucleo in cui crescerà non assomiglierà a niente di ciò che Kimiâ ha conosciuto, e tuttavia l’ammassarsi dei ricordi del passato sono una prova che nulla deve andare perduto, che quel bambino che avrà tre genitori riceverà anche un patrimonio di storie insieme a quello genetico, che sarà importante per lui sapere da dove viene, da chi forse avrà preso, per qualche scherzo del dna, gli occhi azzurri come un pezzo del mar Caspio che erano il marchio di famiglia, quelli che, senza possibilità di dubbio, avevano fatto sì che il bisnonno riconoscesse come suo figlio il piccolo mendicante straccione che lo importunava per avere dei soldi.
La trama del libro è un susseguirsi di storie che si rincorrono, come quelle di Sherazade. E, come Sherazade racconta e racconta per tenere a bada la Morte, così Kimiâ prosegue nelle sue narrazioni rimandando di parlare del FATTO, l’evento più traumatico della vita sua, delle sorelle e della madre, quello che ci si aspetta ma per cui non si è mai pronte. Dobbiamo prima ascoltare del famoso bisnonno, dei mitici occhi azzurri, di matrimoni combinati, di zii che vengono chiamati con un numero e non con un nome, dello zio numero due sulle cui inclinazioni si bisbigliava e che Kimiâ aveva scoperto entrando in una stanza sempre chiusa, della notorietà di Darius Sadr e del carattere anticonformista della madre Sara, della nascita di Kimiâ, la terza figlia che Darius era sicuro sarebbe stato un maschietto, dei disordini a Teheran, degli arresti e delle torture, della fuga del padre, prima, e della madre con le tre figlie, dopo, affidate allo stesso passatore che aveva aiutato Darius, per un cammino impervio tra le montagne, per arrivare in Turchia, a cavallo nella neve.
E molto altro ancora, mentre la seconda narrativa, quella che tocca Kimiâ più da vicino, che spiega la delusione, lo sconcerto, la confusione, l’incapacità di riconoscersi e infine la ribellione- alla famiglia, alle costrizioni, alla mentalità che fissa dei ruoli per maschi e femmine- della ragazzina che era arrivata piena di illusioni e sogni a Parigi, sembra più che mai statica nell’attesa nell’ambulatorio. Un momento di pausa prima di un futuro che sarà totalmente diverso.
Brillante, effervescente, tragico e divertente, il romanzo di Névar Djavadi è la storia delle metamorfosi di un paese affascinante vista attraverso i cambiamenti di una grande famiglia.