E’ importante capire che a volte in un romanzo il protagonista non è una persona, ma un posto. Per quanto riguarda “Il canto dell’usignolo”, primo romanzo di una saga pubblicata da Lian Hearn quasi dieci anni fa e ripubblicato da Edizioni E/O in Italia a gennaio di quest’anno, è innegabile che sia così.
Nel suo palazzo dalle mille torri e guglie, a Inuyama, Iida dorme sonni tranquilli: un pavimento che canta come un usignolo lo difende dalle minacce del mondo esterno, svelando all’istante qualsiasi tentativo di sorprendere il suo sonno. Takeo, dall’altra parte del Giappone, si appresta a scoprire un mondo di suoni al di là della percezione comune: il suo udito fine e la sua mirabolante sensibilità per ciò che lo circonda lo rendono l’assassino perfetto. In punta di piedi riuscirà ad attraversare il pavimento che canta e uccidere Iida nel sonno?
La storia alle spalle di questo interrogativo è quella di Tomasu, un giovane membro del clan degli Occulti, uomini e donne dediti unicamente a una vita pacifica e immersi nella preghiera di un dio rinnegato dal resto del Giappone. Quando però il paese di Tomasu viene distrutto dalla furia omicida di Iida e del suo clan dei Tohan, il giovane deve trovare una nuova strada e una nuova ragione per vivere. Salvato e poi adottato da Shigeru, nobile membro del clan degli Otori, Tomasu assumerà un nuovo nome e scoprirà di essere una persona diversa: non più Tomasu, l’innocente ragazzino, ma Takeo, promettente guerriero. Non un Occulto, ma un membro della Tribù, clan composto da individui dotati di peculiari capacità. Non un difensore della pace, ma un potenziale assassino. La sua nuova ragione di vita? La vendetta.
Come già in passato, mi venne da pensare che, quando pregano, tutte le persone hanno lo stesso aspetto e parlano la stessa lingua. La pace del luogo mi trafisse l’anima. Che cosa ci facevo lì io, un assassino dal cuore assetato di vendetta?
Il Giappone di Lian Hearn esiste (ma non esattamente)
Non c’è altro posto che possa ospitare la storia di Takeo, arazzo dove si intrecciano i nodi del dovere e dell’onore, della famiglia e della vendetta. Il Giappone feudale dove è ambientato “Il canto dell’usignolo” però non è mai esistito. Lo spiega chiaramente l’autrice, nelle prime pagine del libro: «il carattere dell’opera è puramente immaginario e non vi è quindi corrispondenza con luoghi geografici e circostanze storiche precise». Perchè allora ambientare questa storia proprio qui, se questo luogo che la assorbe completamente nemmeno esiste?
Per comprenderlo dobbiamo fare un passo indietro. Lian Hearn non è il vero nome dell’autrice, un po’ come Takeo non è il vero nome del protagonista. Sul suo documento d’identità compare la dicitura Gillian Rubinstein, classe 1942. Gillian è nata e cresciuta in Inghilterra, ma ha poi passato parte dell’adolescenza in Nigeria, per poi tornare a Oxford, dove si è laureata nel 1973. Da qui l’inizio di un’ossessione durata tutta la vita, quella per il Giappone e la sua cultura. Nè l’Inghilterra nè l’Africa sono riuscite a dare alla scrittrice ciò di cui aveva bisogno per vivere e per scrivere, così la tappa successiva è l’Australia, in un progressivo avvicinamento al fulcro della propria passione. Da questo momento, la trasformazione che comincia proprio dal nome: Lian Hearn, lo pseudonimo usato per firmare alcuni dei tantissimi bestseller per ragazzi composti dall’autrice, è un chiaro omaggio alla cultura giapponese. Hearn è infatti anche il cognome di uno scrittore irlandese che ebbe il merito grazie ai suoi scritti realizzati a cavallo tra ‘800 e ‘900 di far conoscere questo paese anche a noi occidentali.
Ecco perchè il Giappone come sfondo di questa storia, in principio perlomeno. Perchè secondo me queste informazioni biografiche non bastano a spiegare in che senso la vicenda di Takeo e degli Otori non avrebbe potuto svolgersi in nessun altro luogo. E soprattutto non credo basti a rendere conto della scelta dell’autrice di prendere il Giappone medievale e ribaltarlo come un calzino, per arricchirlo con elementi magici e fantastici.
Tre intuizioni di Liam Hearn che rendono “Il canto dell’usignolo” un buon libro
La storia è quella di una crescita personale, dall’adolescenza all’età adulta, passando per tutte quelle tappe che già conosciamo: la ricerca del senso, la riscoperta di sè, il travolgimento delle emozioni e il turbamento dettato dalla rabbia per un mondo che sembra andare sempre e solo nel verso sbagliato. “Il canto dell’usignolo” insomma è un libro per ragazzi. Ma, secondo me, è un buon libro per ragazzi e questo fa sì che anche molti adulti possano leggerlo con totale godimento.
La chiave di volta che innesta questo scambio intergenerazionale sta proprio lì, nella decisione di fare di questa storia non una storia qualsiasi, ma la storia di un ragazzo alle prese con un mondo strano: un Giappone feudale rivisitato. La scelta è geniale per molti motivi, proverò a elencarvene alcuni, quelli che bastano a giustificare qualche ingenuità narrativa, che però alla luce delle innovazioni apportate dall’autrice scivola in secondo piano.
In primis, perchè il Giappone lo si conosce, ma non lo si conosce affatto. Lo si conosce, come molti altri luoghi, grazie ai prodotti culturali che da lì decollano. Plasmiamo la nostra idea di questo paese sulla base dei manga o degli anime, in alcuni casi, sulla base di stereotipi culturali consegnatici da un filtro americano. Quindi alla fine, a parte rari casi, il Giappone non lo conosciamo affatto. Questo fa sì che quando entriamo nel mondo degli Otori e nemmeno una volta su un totale di 348 pagine leggiamo la parola “samurai” finiamo per essere scioccati. Il Giappone di Lian Hearn è un luogo diverso dal grande racconto mediatico che ci viene propinato e per quanto la maggior parte degli elementi inseriti dall’autrice sia assolutamente fondato, a noi sembra davvero di star leggendo di un mondo fantastico, finora sconosciuto.
In secondo luogo perchè la trasposizione temporale verso un Medioevo feudale altrettanto sconosciuto e misterioso permette di astrarsi dalle vicende e leggerle con occhio critico. Permette, in altre parole, di vedere al di là delle prassi dell’epoca quei comportamenti che sono rimasti insiti nel genere umano, oltre le connotazioni temporali e geografiche. E’ chiaro che per Takeo sia difficile orientarsi in un mondo di violenza, dove gli scontri tra i clan del Giappone definiscono l’atmosfera politica e influenzano l’esistenza degli individui. Ma è poi tanto diverso dall’esperienza dell’attualità che ha un qualsiasi ragazzo alle soglie dell’età adulta nel 2020? Il mondo è complesso e le emozioni che investono adolescenti e giovani rischiano di offuscare la loro comprensione della realtà. Allo stesso modo, il desiderio di vendetta di fronte alla perdita di tutto ciò che è caro è un sentimento comune: per Takeo sfocia nel desiderio di sangue, per noi oggi nelle proteste a difesa dei nostri diritti, inalienabili.
In terzo luogo perchè conferma la funzione che la magia dovrebbe avere nei libri per ragazzi: spiegare che le soluzioni ai problemi della società nascono dall’interiorità del singolo individuo. Lian Hearn racconta che le risorse per cambiare le cose che non funzionano sono intorno a noi e la forza di volontà per metterle a frutto è invece dentro di noi.
Il mondo della percezione: esiste ciò che percepiamo o percepiamo ciò che esiste?
“E’ bello essere a casa” mormorò Shigeru. “Ma, come il fiume preme alle porte da fuori, così fa il mondo. Ed è nel mondo che ci tocca vivere.“
Il potere di cui dispone Takeo in quanto membro della Tribù è magia fino a un certo punto. Il giovane ha infatti la capacità di percepire molto più di quello che rientra nella sfera percettiva dei comuni mortali. Lo scopre quando una notte, tra i suoni del giardino Shiguro, dove cantano rane e grilli e il vento gioca tra le foglie, riesce a sentire i passi inaudibili di un assassino della Tribù, allenato da anni a essere invisibile agli occhi e alle orecchie del mondo. Takeo non può creare qualcosa che non c’è, la sua non è una magia paranormale, ma è la sottile arte di ascoltare il mondo e di muoversi in esso in totale grazia.
Ma a volte non resistevo al fascino dei luoghi; nella luce obliqua del tramonto attraversavo il bosco di bambù alti e lisci, imboccavo il sentiero sassoso di là dal santuario del dio della montagna, dove i paesani lasciavano in offerta miglio e arance, e penetravo nella foresta di cedri e betulle. Lì guardavo i cervi e le volpi, ascoltavo l’armonioso canto del cuculo e dell’usignolo, mi lasciavo irretire dal melanconico richiamo dei nibbi.
Il suo udito fine, la sua capacità di mimetizzarsi tra le cose e le persone fanno di lui non tanto un mago, quanto piuttosto un uomo che sa stare al mondo meglio di tutti gli altri. Ciò che Takeo sente non è qualcosa che non esiste, qualcosa di fondamentalmente precluso a tutti gli altri: esiste anzi indipendentemente da quello un uomo qualsiasi è in grado di percepire e per questo la magia di Takeo è molto poco magia e molto più risorsa personale. Perchè che noi lo percepiamo o meno, il mondo è lì, al di fuori di noi, muta e si evolve e poco gli importa di quello che noi facciamo per comprenderlo. Il pavimento che canta non può rivelare la presenza di Takeo, perchè egli comprende perfettamente ogni tasto di questo anomalo strumento e sa come camminare leggero in un mondo che ovunque cela suoni, colori e odori, appena un passo al di là di ciò che noi pensiamo ci sia.
Lian Hearn: di sofferenze e minoranze
Quanto agli uomini, li detestava profondamente. Più cresceva, più la molestavano. Le serve sue coetanee facevano a gara per attirare l’attenzione dei soldati: li adulavano, li vezzeggiavano con toni queruli da bambine, si fingevano delicate e perfino ingenue per ottenere la loro protezione. Non che Kaede le disprezzasse per questo (si era convinta che le donne dovessero usare ogni arma di difesa nella battaglia della vita)…
Un ultimo punto mi sembra indispensabile toccare per provare a convincervi a leggere questo libro. Lian Hearn scrive un fantasy, ambientato in un mondo finzionale che confina col nostro solo in alcuni punti. Ma questi punti sono fondamentali e ci consentono di comprenderlo e apprezzarlo. Tra questi compare senz’altro la trattazione del ruolo delle donne nel Giappone antico. Infatti la narrazione della vicenda di Takeo, che avviene in prima persona, è alternata di capitolo in capitolo alla storia di Kaede. Kaede Shirakawa è una ragazza che ha avuto la sfortuna di nascere nel posto sbagliato nel momento sbagliato, finendo per essere vittima degli scontri che martoriano il Giappone di Lian Hearn. Tenuta come ostaggio nel castello dei Noguchi, un clan alleato ai crudeli Tohan, viene trattata per gran parte della vita come una serva fino a quando, per difendersi da un tentativo di violenza sessuale, non uccide la guardia che le aveva messo le mani addosso. Questo suo semplice atto di ribellione innesca una catena di rivolgimenti che avranno il sapore del cambiamento politico: a seguito di questi, verrà cacciata dalla residenza dei Noguchi e promessa in sposa a Shigeru stesso, per sancire l’alleanza, o meglio il soggiogamento degli Otori da parte dei Tohan.
La pace, però, non era nel mio cuore. Pensavo a mia madre, al mio patrigno, alle mie sorelle, al mio padre Kikuta morto da tempo, al popolo di Mino. […] Intorno a noi la gente continuava a deporre lumi sulla barche, piangendo e gemendo, e io ero oppresso dal dolore per il fatto che il mondo fosse com’era, sebbene tale dolore non servisse a niente. Mi ricordai della dottrina degli Occulti, poi però ricordai anche che tutte le persone che me l’avevano insegnata erano morte.
Al paradigma di questa giovane il cui unico destino sembra essere quello di essere serva o moglie di un marito impostole, si affianca la parabola di Takeo: un giovane figlio di una minoranza perseguitata, quella degli Occulti, e di una Tribù temuta. Questi due personaggi riusciranno a far combaciare punto per punto le proprie sofferenze per trovare un modo di vendicarsi? Attorno a loro due, fulcro di dolore e amore, ruotano Shigeru, la nobile Maruyama, il maestro Kenjii, la scaltra serva Shikuza, il crudele Iida e tutto un carosello di personaggi mossi da quelle ardenti passioni che animano la vita di ciascuno di noi. Non importa dunque che la storia si svolge in Giappone e che quel Giappone non esista se non nella mente di chi l’ha inventato: questa è una storia che parla alle storie di ogni ogni singolo lettore.
Di Giappone e della dolce melodia che spira da quelle terre vi avevmo già parlato in un articolo di Muse d’Inchiostro realizzato dalla nostra Valentina Sprega e dedicato a Norvegian Wood di Murakami: lo potete rileggere cliccando qui. Per saperne di più su Il canto dell’usignolo, per restare aggiornati sulle uscite dei prossimi volumi della saga e per leggere cosa si dice di questo romanzo, vi rimando al sito di Edizioni E/O che trovate cliccando qui.