«Propongo dunque un teatro in cui delle immagini fisiche violente distruggano e ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze superiori».
Un teatro totale e totalizzante, quello tratteggiato dallo scrittore e poeta francese Antonin Artaud, che travalica le distanze fra scena, attore e spettatore e agisce direttamente sul corpo, sui nervi e sulla pelle di quest’ultimo, poiché «nella fase di degenerazione in cui siamo, solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica nell’anima». Un Teatro della Crudeltà, in quanto «tutto ciò che agisce è una crudeltà.
È su questa idea di azione estrema e spinta fino in fondo, che il teatro si deve rinnovare». Testi fondamentali per la comprensione del pensiero di uno dei maggiori drammaturghi del secolo scorso, vengono ora ripubblicati nell’agile volumetto Il teatro e la crudeltà ( edizioni e/ o), all’interno della serie Piccola Biblioteca Morale, diretta dal giornalista e critico Goffredo Fofi.
Pagine che ne disvelano l’innegabile attualità, in quanto, come evidenziato dallo studioso Rodolfo Sacchettini, «l’eredità di Artaud è enorme e ha contribuito in maniera fondamentale a dar vita al “nuovo teatro” italiano e internazionale, cioè a quell’ondata rivoluzionaria che dagli anni Sessanta in poi ha provato, recuperando le avanguardie storiche, a rinnovare la scena teatrale inventando anche nuove relazioni con la realtà».
Artista di rottura, Artaud marca la distanza con il passato portando avanti le istanze della contemporaneità contro il retaggio formale della tradizione – «I capolavori del passato vanno bene per il passato, non per noi. Noi abbiamo il diritto di dire ciò che è stato detto e anche ciò che non è stato detto in una forma che ci appartenga, che sia immediata e diretta, che risponda all’attuale modo di sentire e che tutti comprendano» –, senza per altro lesinare critiche ai Surrealisti, al cui movimento aveva inizialmente aderito, collaborando ai primi numeri della Révolution Surréaliste, ma dal quale, dati i frequenti contrasti cagionati dalle diverse prospettive reciproche in tema di arte e politica, venne espulso.
«Ci sono – scrisse in seguito alla rottura – delle bombe da mettere da qualche parte, alla base della maggioranza delle abitudini del pensiero odierno, europeo o meno. Di tali abitudini, i Signori Surrealisti sono affetti molto più di me – ve lo assicuro – e il loro rispetto per certi feticci fatti uomini e il loro inginocchiarsi davanti al Comunismo ne è la prova migliore» .
Particolarmente sentita, da parte di Artaud, è la necessità del superamento del teatro di parola, di quel teatro dialogato che pur tanta fortuna riscuoteva ancora in Occidente.
Argomentava, in un brano della celebre raccolta di saggi Il teatro e il suo doppio ( 1938): «Il dialogo – scritto e parlato – non appartiene specificamente alla scena, ma appartiene al libro; e la prova sta nel fatto che molti manuali di storia della letteratura riservano uno spazio al teatro, considerato come un ramo accessorio della storia del linguaggio articolato». A catturare la sua attenzione è invece la natura essenziale e ulteriore del mezzo teatrale, nonché il pieno sviluppo delle sue potenzialità latenti.
Non affidarsi a una deriva psicologica tesa a “ridurre l’ignoto al noto, ovvero al quotidiano e all’ordinario”, quanto piuttosto indirizzarsi verso la totalità dell’uomo, unitamente alle ansie e alle inquietudini delle epoche da esso attraversate. «Rinunciando all’uomo psicologico, – affermò nel secondo manifesto incentrato sul Teatro della Crudeltà e autopubblicato nel 1933 – al carattere e ai sentimenti ben delineati, si rivolgerà all’uomo totale e non all’uomo sociale, sottomesso alle leggi e deformato dalle religioni e dai precetti.
E nell’uomo terrà conto non soltanto del recto ma anche del verso dello spirito; la realtà dell’immaginazione e dei sogni apparirà sullo stesso piano della vita». Una vita che si contorce nella sua intrinseca anarchia e un teatro che sa coglierne gli innumeri riverberi inscrivendoli in una metafisica personale e collettiva.
E che, del suo fervido seguace, condivide la necessità del grido. «Se Artaud gridava, – chiosava lo scrittore e drammaturgo Arthur Adamov nel giugno del 1965 sulle colonne del periodico Sipario – era perché di gridare aveva bisogno» .