L'anno scorso aveva ricevuto il Nobel alternativo, il New Academy Prize in Literature, istituito proprio per supplire alla mancanza del celebre riconoscimento; in ottobre invece era stata data per favorita assieme alla poetessa canadese Anne Carson. Maryse Condé, nata nel 1937 a Pointe-à-Pitre, città dell'isola antillana di Guadalupa, una regione d'oltremare dello stato francese contornata di banchi corallini, massicci calcarei e rocce madreporiche (il nome Guadeloupe le fu dato da Cristoforo Colombo in onore della Virgen de Guadalupe dell'Estremadura). Laureata alla Sorbona, professoressa a Berkeley, Harvard e alla Columbia University, è stata insignita nel 1988 del Premio Anaïs Nin dell'Académie française con La vita perfida (traduzione di Guia Risari, edizioni e/o, pagine 320, euro 18), che narra la storia secolare dei Louis, famiglia cosmopolita della borghesia nera guadalupana. Il suo capolavoro è, però, considerato Segù, diviso in due volumi pubblicati in Italia da Edizioni Lavoro (Le muraglie di terra e La terra in briciole).
Autrice di una ventina di romanzi, approdata alla scrittura dopo un tortuoso itinerario di delusioni amorose, difficoltà economiche e soprusi, Condé ― con il suo stile aspro e armonico al contempo ― è tra i più importanti interpreti della letteratura postcoloniale, grazie anche alla teoria del “cannibale”, significante ripreso da Mário de Andrade per celebrare l'ibridazione e il métissage culturale (da una popolazione indigena brasiliana, i tupì, che ritenevano di assimilare le virtù dei conquistatori grazie a un rito cannibale), ma anche metafora da leggere in chiave femminista della donna di colore sposata con un uomo bianco.
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La vita senza fard (traduzione di Anna D'Elia, La Tartaruga, pagine 269, euro 19), un'autobiografia senza peli sulla lingua...
«È la storia della mia vita fino a quando ho incontrato il mio secondo marito, Richard Philcox (sposato nel 1982, ndr) e sono diventata una scrittrice. Ho sempre desiderato scrivere, ma credevo che uno scrittore dovesse essere un uomo bianco di un paese sviluppato. In La vita senza fard spiego come ho vinto la mia paura ed esprimo i miei sentimenti interiori, più profondi. Allo stesso tempo, volevo dimostrare che la vita di una donna è irta di difficoltà: bisogna combattere così tanti pregiudizi...».
Nel libro parla molto approfonditamente del suo trasferimento in Africa da Parigi. Che peso ha avuto l'Africa nella sua vita e nel suo immaginario?
«Sono nata a Guadalupa, un'isola antillana in cui gli abitanti discendono da schiavi africani. I miei genitori non mi hanno mai parlato del nostro amaro passato. Quando ho scoperto gli orrori di tutto quello che era successo, ho creduto che fosse mio dovere tornare in Africa e scoprire chi ero veramente, capire dove risiedesse la mia reale identità. Mentre vivevo in Africa, ho compreso con chiarezza come il colore della pelle non sia l'elemento più considerevole. È ben altro: devi condividere una cultura, una religione e tradizioni varie. Altrimenti sei considerato uno straniero».
Molte delle riflessioni più importanti dei suoi romanzi sono rivolte alla maternità. Cosa significa essere una madre e una donna in Africa?
«In ogni paese del mondo c'è, nella donna, una sorta di dualismo che sembra assai difficile da risolvere. È come se vivesse sulla sua pelle, appunto, due “nature” estremamente ardue da mediare. In ogni angolo della Terra le donne devono conciliare la maternità con la ricerca di un posto nella società».
È vero che François Mauriac è uno dei suoi modelli letterari? Ce ne sono altri in particolare?
«Ho scoperto Lo scimmiottino, celebre short novel di François Mauriac, quando ero una bambina. Era così diverso dalla vita che conoscevo e mi ha costretto ad affrontare problemi totalmente differenti dai miei. Oltre a Mauriac, molti scrittori mi hanno influenzato. La più importante è Emily Brontë e il suo romanzo Cime tempestose. Mi piace molto anche Virginia Woolf, Thomas Hardy e credo che la letteratura inglese in generale dia risposte a domande assai rilevanti per scrittori di un'altra nazionalità».
Cosa pensa della negritudine? Senghor è stato una delle sue guide spirituali?
«No, Senghor non è stato la mia guida spirituale. Ho iniziato ad avere forti perplessità sulla negritudine quando vivevo in Guinea e ho scoperto molto presto che il colore della pelle non è l'elemento principale della personalità di un individuo. La condivisione di una cultura è la componente più essenziale, per certi versi decisiva. La mia guida spirituale è lo psichiatra e antropologo antillano Frantz Fanon, autore di opere come Peau noire, masques blancs e Les Damnés de la terre».
Nell'introduzione di La vita senza fard scrive: «Per parafrasare Jean-Jacques Rousseau ne Le confessioni, intendo oggi mostrare ai miei simili una donna in tutta la verità della sua natura e quella donna sarò io». Cosa può dirci della sua passione per la verità?
«Sono nata con essa, ma non so da dove provenga con esattezza. C'è un aneddoto che mi piace raccontare spesso: quando avevo otto o dieci anni ho scritto una poesia per il compleanno di mia madre nella quale ho dato la mia descrizione di lei, in certi punti mostrandola adorabile, in altri complicata e persino dura. Mia madre ha pianto quando ha ascoltato il mio testo, e ho scoperto così il potere di scrivere. In tutti i miei libri provo a trasmettere la stessa cosa».