Per predisporsi alla lettura di “Fratello Grande” di Mahir Guven, premio Goncourt 2017 per il Primo Romanzo, bisogna avere acquisito un bagaglio critico ed esperienziale di un certo livello, assieme ad un approccio alla vita di ampie vedute.
L’avvincente racconto vede come protagonisti due fratelli, di padre siriano, che rimangono orfani di madre. Le loro vite si separano e si intrecciano quasi come gli schemi calcistici descritti da Guven, con un tocco di nostalgia per i giochi spensierati dell’infanzia. Eppure la vita non è come un campo di calcio, ma si rivela piena di ostacoli che si superano cercando soluzioni, cercando di “allargare il campo del possibile”. Mentre il fratello maggiore è conducente di taxi Uber, il fratello minore (soprannominato Cerotto) sceglie la strada di aiutare il prossimo, perseguendo la carriera di infermiere e, in seguito, andando a lavorare in zona di guerra.
Addentrandosi gradualmente tra le sue pagine, si scopre in questo romanzo l’alternanza delle voci dei due fratelli, che trascina il lettore in una imprevedibile spirale linguistica, con sfumature gergali volte a rendere il narrato particolarmente realistico.
Colpisce il rapporto amore-odio tra i due fratelli e la scoperta che il legame di sangue possa essere più forte di qualunque avvenimento dai risvolti inquietanti. Così Guven, tramite la metafora della Vita e dell’albero libero opposto alla pianta nel vaso, riassume in una frase l’affettività tra i protagonisti: “la sua presenza era come un miraggio, era lì, era già qualcosa di inaudito, ma era come se potesse sparire da un momento all’altro”.