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Mahir Guven: “La parola scritta ha una potenza impareggiabile, ha a che fare con l’interiorità”

Autore: Andrea Coccia
Testata: Munizioni Bompiani
Data: 13 novembre 2019
URL: https://medium.com/munizioni-bompiani/mahir-guven-la-parola-scritta-ha-una-potenza-impareggiabile-ha-a-che-fare-con-linteriorit%C3%A0-2c09c8f9c602

Mahir Guven ha un nome turco, un viso mediterraneo e non parla francese come i parigini. È nato e cresciuto alla periferia di Nantes da madre turca e padre curdo, entrambi rifugiati politici; è diventato cittadino francese soltanto all’età di dieci anni, vivendo sulla propria pelle tutti i limiti dell’integrazione in un paese multietnico come la Francia.

A differenza di molti suoi colleghi, che alla scrittura sono arrivati dopo un percorso di studi letterario, accademico, spesso al cento per cento parigino, Guven, che ha studiato economia, ha cominciato a scrivere più tardi della media, dopo aver accumulato esperienze di vita e di lavoro molto diverse: dal lavavetri all’operatore di call center, passando per la consulenza finanziaria e approdando infine al mondo del giornalismo e dell’editoria.

Eppure, partendo da outsider e lavorando duramente, Guven è riuscito a farsi strada e a pubblicare il suo primo romanzo, Fratello grande — tradotto in italiano da Yasmina Mélaouah per i tipi di e/o — , scritto con un linguaggio potente e con il quale affronta di petto le tematiche dell’identità e dell’integrazione, raccontando la storia di due fratelli franco-siriani, uno che vive a Parigi e che fa l’autista di Uber e l’altro che prende una strada opposta e parte per la Siria per fare l’infermiere con un’organizzazione umanitaria musulmana senza dare più notizie di sé.

“I lavori più difficili sono stati quelli di venditore, quando passavo tutto il giorno al telefono, o quando facevo traduzioni dal turco e dal francese per una assicurazione,” racconta sorridente, intercalando a un francese rigoroso qualche parola in argot e qualche giro di frase che sa di periferia. “Era molto faticoso,” continua, seduto dietro la scrivania della casa editrice per la quale ha appena cominciato a dirigere una collana di esordienti. “Arrivavo a fine giornata estenuato e svuotato, perché erano lavori ripetitivi, che ti portavano a stare fermo tutto il giorno, eppure erano lavori per così dire intellettuali.”

Cosa hai imparato da quelle esperienze?

Quando ti ritrovi a fare un lavoro manuale e a mettere insieme tanti lavori diversi, quello che impari, oltre ad apprezzare in qualche modo lo sforzo fisico, è il rispetto per il lavoro. Grazie all’esperienza ho capito che non esistono affatto mestieri di serie B. Per esempio, se dovessi scegliere quale tra i tanti lavori che ho fatto mi ha reso più felice, probabilmente direi il lavavetri: mentre lavoravamo io e il mio collega non pensavamo a nulla e chiacchieravamo tutta la giornata. Ci divertivamo parecchio, e in qualche modo viaggiavamo anche. Non andavamo lontano, ma non lavoravamo mai nello stesso posto: abbiamo lavato le finestre di banche, case di riposo, prefetture, case private. C’è anche un’altra cosa che aggiungerei: quando finisci un lavoro del genere è vero che sei stanco fisicamente, ma hai la testa leggera e puoi dedicare il tuo tempo libero a leggere e scrivere.

Che differenza credi che ci sia tra uno scrittore “accademico” e uno che ha affrontato un percorso meno lineare e meno intellettuale?

Non posso certo generalizzare, ma la mia sensazione è che esista una certa differenza tra chi viene da un percorso lineare e chi, come me, si è trovato su questa strada più tardi, dopo aver sperimentato mille altre cose. Per me non ci sono regole. L’unica cosa che conta è che il testo regga in pagina, che abbia uno sguardo, che è una caratteristica che non si impara a scuola, perché è legata alla sensibilità, alla curiosità, alle esperienze di vita.

Come si forma?

Io non sono cresciuto in una banlieue né in una cité disastrata. Sono cresciuto in un piccolo paese vicino a Nantes, un paese normale come immagino ce ne siano molti anche in Italia, in cui vivono dei ricchi e dei poveri. I ricchi di solito sono il sindaco, il medico, il notaio, e i poveri sono gli operai, i lavoratori manuali, di cui anche la mia famiglia faceva parte. Poi, come dicevo prima, ho fatto esperienze lavorative di ogni tipo. È tutto ciò che ha forgiato il mio sguardo. Per questo motivo, ora che curo una collana di scrittori emergenti, cerco di far capire agli autori con cui mi trovo a lavorare che l’importante è coltivare lo sguardo, lo stile si lavora.

Come sei arrivato a lavorare in una casa editrice?

A scuola mi hanno insegnato che il mio obiettivo nella vita doveva essere diventare un quadro, trovare uno di quei lavori da giacca e cravatta, e io ci ho creduto. Poi, dopo anni di studio e sacrificio, quando ho iniziato a lavorare alla Défense, il quartiere di ferro di Parigi, mi sono subito sentito fuori posto. Il primo giorno, mentre tornavo a casa, ricordo di aver pianto. Pensavo di aver sbagliato tutto, che gli anni di studio fossero stati una perdita di tempo. Allora mi sono fatto forza e mi sono detto quello che immagino si dicano i militari: “Lo faccio per qualche anno e guadagno un po’ di soldi, poi vedremo.” E così è andata. Guadagnavo molto bene ma ero combattuto. Da una parte quel lavoro mi dava tranquillità, mi pagava bene: tutti mi dicevano che era perfetto. Dall’altra però mi annoiava, sapevo che quello non era il mio mondo; i colleghi erano tutti simpatici, ma non avevo nulla da spartire con loro.

Poi che cosa è successo?

Poi per caso ho incontrato Éric Fottorino, che mi ha proposto di unirmi alla redazione del progetto Le 1 e ho pensato subito che lì ci fosse qualcosa che faceva davvero al caso mio. Non mi offriva un lavoro da giornalista, ma l’ambiente era del tutto diverso da quello a cui ero abituato, e mi attirava. E infatti è stata una bellissima avventura.

Come hai vissuto il passaggio da un mondo imprenditoriale a uno intellettuale?

È stato come squarciare un velo. Era un mondo che non conoscevo: per la prima volta incontravo qualcuno che scriveva per vivere. Di colpo mi sono ritrovato davanti personaggi che avevo sempre visto intervistati in tv o su qualche settimanale o ritratti nelle quarte di copertina dei loro libri, scoprendo che erano persone come me. Quello è stato il momento in cui mi sono detto che dovevo mettermi a lavorare duro, che volevo scrivere. Avevo già scritto qualcosa, ma senza alcuna pretesa né speranza di essere pubblicato.

Cosa pensi del panorama editoriale contemporaneo?

Devo ammettere che quando leggo i contemporanei mi capita di rimanere deluso dal loro sguardo e troppo spesso oltre lo stile non vedo altro. A volte mi dico che forse è a causa dell’età, di modelli ormai sorpassati: c’è chi è troppo conservatore e chi è troppo marxista. Un po’ come se fossero dotati di software ormai superati.

Come hai iniziato a scrivere?

La prima cosa che mi sono messo a scrivere è stata una specie di romanzo breve sul mondo che avevo imparato a conoscere durante il periodo alla Défense. C’era dentro dell’energia, ma era tutto troppo istintivo, rabbioso, e allora ho lasciato perdere e ho cominciato a scrivere racconti, testi ispirati anche ai brani di alcuni rapper che negli anni novanta usavano una lingua ritmata ma molto letteraria. Penso soprattutto agli IAM, che in una canzone di pochi minuti riuscivano quasi a raccontare un romanzo.

Come è nato Fratello grande?

Una volta, al giornale, si discuteva di banlieue e io non ero affatto d’accordo con tutti gli altri. Pensavo che si stessero sbagliando, che avessero punti di vista ingenui o addirittura disinformati. Allora non sono intervenuto, ma poi mi è venuta voglia di lasciare depositare le idee che mi frullavano in testa. Ho iniziato a scrivere il romanzo dopo aver visto a Parigi una mostra su Martin Scorsese, che mi ha colpito soprattutto nella parte dedicata a Taxi Driver. Un paio di giorni dopo ho fatto amicizia proprio con un autista di Uber, che mi ha raccontato la sua vita e il rapporto conflittuale con il padre, un tassista. Quando sono tornato a casa sapevo di aver trovato il mio personaggio: così mi sono messo a scrivere, creando un profilo a cui ci si poteva affezionare, né buono né cattivo, ma una persona normale che vuole cavarsela nella vita. Poi mi sono chiesto quale sassolino nella scarpa potevo mettergli per dare a lui uno spessore e al romanzo una dinamica, e ho pensato all’idea del fratello scomparso. Ho scelto di mettere al centro una famiglia di origine siriana, cosa che in Francia non è molto comune, perché volevo uno sguardo diverso per ragionare sull’immigrazione, e ho dato ai due fratelli una madre francese e un padre siriano, in modo da poter sviluppare la tematica del conflitto di identità.

Nel romanzo a un certo punto uno dei due fratelli si chiede perché si stampino ancora i libri se poi nessuno li legge. Che ruolo ha la parola nell’epoca dei social network e dei selfie?

Oggi credo che l’idea che la gente non legge più sia una fake news. Non lo pensavo fino a poco tempo fa. Sono uno scrittore, è vero, ma vengo da studi di economia e le cifre per me sono molto importanti. Fare filosofia senza usare la sociologia e i big data è dimenticare che abbiamo degli strumenti in più per capire il mondo. E se guardi con questi occhi il mondo dell’editoria noti che sì, è vero, il mercato ha avuto una flessione, ma il libro resta ancora uno dei supporti centrali della nostra società, un supporto che dà legittimità. Nel mondo dei nuovi media ci sono anche cose fatte molto bene, non lo nego, ma il libro e la parola scritta hanno una forza che gli altri media non potranno mai avere, una potenza che ha a che fare con l’interiorità.

Perché?

Il libro costruisce un dialogo permanente con il lettore, che leggendo crea nella sua testa il mondo che il libro racconta. Questo per la generazione dei nostri genitori e in parte forse anche per la nostra è un dato acquisito, ma c’è da fare un grande lavoro di educazione sulle generazioni più giovani. Quando leggi un libro sai che prima di arrivare a te è passato da un editore che l’ha scelto e ci ha investito, da redattori che l’hanno editato, da un correttore di bozze che l’ha riletto, insomma, dietro un libro esiste un mondo che spesso dietro le nuove forme di comunicazione non c’è. È questo che gli dà legittimità. Il libro poi, come accennavo prima, è una palestra per il cervello, non è come la televisione o il cinema, che hanno una fruizione passiva: un po’ come se ti facessi i muscoli mettendo dei diodi sulla pelle che li fanno contrarre mentre tu stai sdraiato sul divano. Il libro invece richiede uno sforzo, una volontà, i muscoli li devi far muovere tu. Il libro ti spinge a immaginare. E poi la letteratura è la forma d’arte che riesce a farti mettere nei panni degli altri meglio di qualsiasi altra arte narrativa, e arriva a propagarsi in modo esponenziale, magari non come un video di YouTube, ma quasi. Forse un tweet arriva a più persone, è vero, ma si perde istantaneamente nel flusso, mentre il libro resta lì, inchioda le parole a un supporto e resiste al tempo.

Il tuo romanzo è scritto con un linguaggio potente e vivo, un misto di argot e di verlan che ha il sapore della banlieue. Come sei arrivato a trovare la voce giusta?

Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo mi sono interrogato a lungo sulla questione del registro linguistico. Se avessi sbagliato il testo sarebbe suonato falso. Il linguaggio della banlieue usa molte metafore, tantissimo umorismo, ma anche tanta gestualità che è molto difficile da rendere in letteratura. È un misto di cose che ho imparato fin da piccolo, a scuola, in strada, ascoltando il rap. È una specie di koinè fatta di francese, di argot, di verlan, di gestualità, ma soprattutto è una lingua che cambia in continuazione. Per questo all’inizio sono andato per tentativi. Nella prima stesura buttavo fuori tutto, accumulavo. Poi ripassavo come uno scultore con lo scalpello a togliere e aggiustare. Il mio obiettivo era rendere la pagina fluida e per questo leggevo ad alta voce, per sentire se funzionava o no.

Come hai costruito i personaggi?

Volevo che sembrassero intelligenti senza che se ne rendessero conto. Per riuscirci ho pensato a un amico con cui giocavo a calcio negli anni novanta, un ragazzo semplice, che non aveva studiato e che per vivere rubava e rivendeva autoradio. Pur non avendo letto probabilmente nemmeno un libro in vita sua, quando parlava e raccontava la sua vita aveva un tono brillante e sembrava straordinariamente intelligente. Aveva la saggezza popolare che si trova spesso nelle banlieue. Sono partito da lì, cercando di rendere quel modo intelligente, diretto, quella sua lingua un po’ storta, ma in fondo viva e precisa. E anche se faceva degli errori, che importava? Anche i grandi filosofi li fanno.

Prima hai parlato del rap, che influenza ha avuto sulla tua scrittura?

Ho scritto Fratello grande ascoltando rap in continuazione, con gli auricolari sempre nelle orecchie. Mi serviva per immedesimarmi ancora di più nella realtà che volevo raccontare. Era fondamentale perché le mie parole non restassero munizioni a salve e non suonassero finte. In alcuni passaggi ho lavorato proprio come se componessero il testo di una canzone rap, cercando di dare loro il flow, accelerando e ritmando di più in alcuni punti topici del romanzo.

Che cosa pensi degli intellettuali?

Mi verrebbe da dire, un po’ come provocazione, che gli intellettuali sono un male necessario. È ovvio che non è possibile sapere tutto di tutto, ma serve che qualcuno ci provi. La principale difficoltà qui in Francia è che tutto è centralizzato su Parigi e spesso gli intellettuali francesi che parlano della Francia e del mondo lo fanno da un punto di vista parigino. Faccio un esempio: durante un viaggio in Germania mi sono accorto che di quel paese non sapevo quasi nulla. I giornalisti e gli intellettuali francesi che ne parlano lo fanno da un punto di vista francese, parigicentrico, che non c’entra nulla con la Germania, la quale non è affatto berlinocentrica. Ancora una volta è un problema di sguardo. Bisogna muoversi per capire, bisogna andare nei luoghi che si vogliono raccontare, parlare con la gente, mettere sempre in discussione il nostro sguardo e riconoscere che possiamo avere solo una versione nostra, e quindi parziale, del mondo. Non è sbagliata — non esiste quella giusta — ma ne esistono milioni e bisogna esserne coscienti.

A proposito di bagni di realtà, che ne pensi del movimento dei gilet gialli?

Sui gilet gialli francamente io non riesco ad avere una opinione netta. Da una parte milioni di cittadini sono in collera e si sentono abbandonati da uno stato che, come dicevo, è del tutto centrato su Parigi. E io questo lo capisco molto bene, vengo anche io dalla provincia e conosco quella sensazione di abbandono, di emarginazione, il disprezzo della borghesia parigina verso chi abita ai confini dell’impero. Ma quello che non posso capire è la violenza: perché spaccare tutto? Quando mi hanno chiesto di scrivere degli editoriali sul tema mi sono sempre rifiutato, e l’ho fatto perché quando il movimento dei gilet gialli si è sviluppato io non mi trovavo in Francia. Se fossi stato qui sarei andato a parlare con quella gente, alle rotonde, durante le occupazioni e i blocchi, ma non c’ero. Che legittimità avrei mai potuto avere?

Una delle caratteristiche comuni a molti di questi movimenti di cittadini è il disprezzo per la classe intellettuale, tu che ne pensi?

C’è una crisi di autorevolezza nelle nostre società. Tutti pretendono di poter fare tutto. Mi domando se la colpa sia di internet o se alla base ci sia una dinamica con radici più profonde e antiche. Sta di fatto che ci siamo trovati tutti allo stesso livello. Si è perso il concetto di autorevolezza, il rispetto per chi ha legittimità nell’affermare qualcosa.

Oltre a internet quale può essere la causa?

La scuola. Il sistema scolastico in Francia, per esempio, non è particolarmente inclusivo. Sembra fatto apposta per permettere agli studenti più docili e conformisti di diventare i primi della classe, mentre i profili più complessi, più brillanti e più creativi restano esclusi e marginalizzati. Io credo che tra i gilet gialli ci siano tanti di questi ragazzi e ragazze, che non hanno avuto modo di rinforzare con lo studio quella loro intelligenza creativa e un po’ anarchica. Nei gilet gialli io vedo proprio la mancanza di quella base solida che ti dà al contempo legittimità e profondità di analisi. A loro, così come al Movimento 5 Stelle, mi sembra che manchino proprio gli intellettuali. Sono l’espressione di una collera, comprensibile ma fine a se stessa.

Come vedi il futuro? Sei ottimista?

Per la Francia no, non sono affatto ottimista. Sono molto preoccupato perché stiamo vivendo una specie di febbre fascista e populista che contagia anche chi fino a qualche tempo fa si dichiarava di centrodestra o di centrosinistra. Questa dinamica è iniziata nel centrodestra con Sarkozy, ma poi si è estesa al centrosinistra con Macron, e anche se non credo che Macron sia il problema, mi spaventa chi verrà dopo di lui, perché gli elettori nel frattempo stanno votando sempre di più la versione originale: Marine Le Pen. Insomma, non sono molto ottimista, anche se per natura fatico a dirmi pessimista: amo troppo la vita per esserlo.