Sudafrica. Tarda estate 2010. L’ispettore bianco poco più che quarantenne Albertus Markus Bert Beeslar, due metri di altezza, capelli neri e occhi verde scuro, tratti solidi e forti, pallido e corrucciato, sbirro vecchia scuola, spesso rude e sgarbato, pauroso solo dei ragni, vent’anni di servizio nella SAPS (la polizia sudafricana) perlopiù a Soweto (Johannesburg) e ora nel Western Cape, la polvere ruvida del Kalahari, decide di trascorrere qualche giorno di vacanza dal suo amico e mentore Balthazar Blikkies Bliksem van Blerk, un collega sessantenne appena andato in pensione, collocatosi in una residenza per anziani a Stellenbosch, dove vive la figlia Tertia. Proprio lei lo chiama mentre è in viaggio: il padre è morto. Naturalmente. Fa in tempo a partecipare alla cerimonia funebre e viene coinvolto nelle chiacchiere su strane vicende che accadono all’interno della casa di riposo. Poi arriva una telefonata: qualcuno ha ucciso la bella moglie del figlio di una delle ospiti più anziane, che gli chiede di aiutarli sostenendo che nelle forze dell’ordine i neri sono incapaci e demotivati, soprattutto quando ci sono di mezzo ricchi e/o afrikaner. La responsabile dell’indagine è il capitano xhosa Vuyokazi Qhubeka, giovane ma anche lei molto legata a Blikkies. Forse suo malgrado, di fatto Albertus si trova coinvolto. Nelle stesse ore il suo ex figlioccio meticcio Jannes Ghaap si è trasferito e sta provando a fare l’inesperto aitante sergente nell’enorme agglomerato di Soweto, quasi due milioni di persone. Gli rubano macchina e pistola, rischia salute e provvedimenti, finché arriva la chiamata che denuncia la scomparsa della rossa Gerda incinta e del figlio di venti mesi. Nelle foto di casa c’è Beeslaar, era la sua amata, accidenti!
La giornalista politica Karin Brynard (Koffiefontein, 1975) conferma le qualità letterarie e la densità emotiva (mostrate all’esordio) anche nel secondo ottimo romanzo della serie, uscito nel 2011 in afrikaans, poi tradotto in inglese nel 2016. Dall’arido contesto selvaggio del veld, l’azione si sposta parallelamente nella terra vitivinicola per eccellenza e nella township connessa a Johannesburg. La narrazione è in terza varia, alternativamente fissa sul punto di vista dei tre connessi protagonisti: Albertus, Jannes, Gerda; memorabili le telefonate fra i due, emozionanti e più brevi i capitoli sul violento rapimento della donna che sta per partorire una bambina concepita proprio con Beeslaar (anche se lui non lo sa), compiuto da due minorenni violati che l’hanno rinchiusa, legata e imbavagliata, con gli occhi coperti, in compagnia di una iena in gabbia. Finalmente scopriamo cosa era accaduto anni prima fra lei e Albertus, a legarli e allontanarli contemporaneamente e drammaticamente per la vita. I padri del titolo sono i nostri, quelli di ogni figlio, comunità, popolo; continui riferimenti ai meticci e al meticciato; le ferite dell’apartheid risultano ancora tutte aperte. E molto si racconta e si riflette su come i maschi esercitano la paternità, più o meno irresponsabile. Le descrizioni sociali sono accurate e approfondite, riguardo sia ai ricchi boeri dell’imprenditoria immobiliare che alle contraddizioni di classi e colori nelle persistenti townships. Il vino di Stellenbosch andrebbe assolutamente degustato. Beeslaar si addormenterebbe volentieri con i concerti per corno di Mozart.