Pubblicati entrambi per Edizioni E/O, I nostri padri, di Karin Brynard (traduzione di Silvia Montis) e L’appeso di Conakry, di Jean-Christophe Rufin (traduzione di Alberto Bracci Testasecca), sono due ottimi romanzi che descrivono parti dell’Africa contemporanea da una prospettiva originale.
Dopo L’uomo dei sogni, Il collare rosso, Check-point e Globalia torna in libreria un testo di Jean-Christophe Rufin, medico, diplomatico, fondatore di Medici senza frontiere, già vincitore del Premio Goncourt.
Questa volta l’ambientazione è Conakry, capitale della Guinea, dove, in una calda mattinata, la folla assiepata sul molo e sulla barriera frangiflutti osserva una barca ormeggiata nella Marina dal cui albero maestro pende il corpo senza vita di un uomo bianco che ben presto si scopre essere un cittadino francese.
L’improbabile ma realissimo Aurel Timescu, infagottato in un cappotto, armato di occhiali da sciatore, l’accento romeno, console di Francia in città, si appassiona al caso che, almeno all’inizio, appare un delitto senza spiegazione apparente.
Intervallata da suonate notturne al pianoforte e bevute di tokaj, l’indagine di Aurel si dipana dai bassifondi della metropoli fino ai circoli esclusivi degli ex colonizzatori, in una divertente e riuscita sequela di dialoghi e di ragionamenti intrigati e intriganti.
Aurel Timescu mi ha ricordato Henry Scobie, il protagonista de Il nocciolo della questione di Graham Greene (ambientato a Freetown, 230 chilometri a sud di Conakry), seppur lo stile dei due autori sia diversissimo: in Rufin mancano lo spessore psicologico e la goduria patologica del tradimento che muovono molti “attori” greeniani. Il pregio de L’appeso di Conakry è quello di ricreare un ritratto tropicale veritiero, di non cadere del sentimentalismo e di rendere eroico un personaggio senza dubbio memorabile come Aurel Timescu.