Anno terribile, il 1920 a Vienna: è una città che cerca di rialzarsi dalla disfatta della prima guerra mondiale, dalla scomparsa dell’Impero e dall’epidemia di spagnola, percorsa da fermenti rivoluzionari ma sopratutto afflitta da fame e miseria. Questo è lo sfondo sul quale ritroviamo in una nuova storia l’Ispettore August Emmerich, lo storpio, eroe di guerra sgradito, e relegato tra i fascicoli e i rapporti da compilare.
È a causa di questo bullismo che all’Ispettore viene affidato il caso Rita Haidrich, attrice di cinema muto che si sente minacciata da una oscura maledizione: un caso forse inesistente, sicuramente piuttosto assurdo, ma che Emmerich riesce per puro caso a risolvere in tempi brevissimi e grazie al quale otterrà l’autorizzazione ad indagare, anche se solo per 72 ore, su un ben più importante caso di omicidio. Un politico locale, riformista, amato dal popolo, viene assassinato apparentemente da un povero disgraziato e per motivi politici: caso chiuso, per i colleghi di Emmerich, ma per lui che conosce direttamente la vittima e per il suo istinto di detective le cose non sono così chiare come sembrano. Ed in effetti la morte del consigliere Richard Furst potrebbe essere solo l’inizio.
L’indagine, che si muove all’inizio sui classici canali investigativi di sesso, denaro e potere, rivela in realtà qualcosa di più contorto e oscuro che metterà in pericolo Emmerich e il suo assistente Winter. Anche la scrittura è piuttosto lineare, a tratti può essere percepita come un po’ datata, ma è probabilmente una scelta stilistica della Beer ed è coerente con l’atmosfera del periodo, per la quale avrebbe stonato un linguaggio troppo moderno.
La vera forza del romanzo in effetti è nell’accurata ambientazione: prima dell’apocalisse scatenata dalla guerra mondiale la capitale Austriaca era stata la protagonista grandi cambiamenti, sia dal punto di vista delle innovazioni in campo artistico e architettonico che nell’ambito sociale, culturale e scientifico; vantava nel suo di personaggi come Arthur Schnitzler, Sigmund Freud, pittori come Klimt e Schiele, era in rapida espansione.
Alex Beer (o Daniela Larcher se si preferisce il vero nome della scrittrice austriaca) mette in campo una vasta e accurata conoscenza storica e architettonica della città, riuscendo a trasmettere quella sensazione di capitale decaduta, in bilico tra i vecchi fasti e le tragedie contemporanee, sfondo vivissimo all’indagine di Emmerich. La descrizione della quotidiana miseria dei suoi abitanti è ben raccontata, e quel che nasce è un ritratto complesso e sfaccettato decisamente affascinante.
Emmerich e Winter sono circondati da una serie di personaggi singolari, e forse sulla loro caratterizzazione la Beer scivola a volte – e paradossalmente – sull’eccesso di accuratezza: sono tutti molto aderenti a quello che ci si aspetterebbe che fossero, i dettagli sono quelli che probabilmente avremmo immaginato anche noi come lettori, le imperfezioni son perfette nella loro coerenza con il personaggio, ma talvolta si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una rappresentazione teatrale molto ben realizzata, alla quale avrebbe giovato un po’ più di naturalezza, anche considerato che nella letteratura crime in genere – che sia giallo classico, noir o hard boiled – ciò che si indaga è l’imperfezione dell’animo umano, l’anomalia, l’imprevisto.
La donna in rosso è nel complesso un romanzo scorrevole, a metà tra il giallo e il romanzo storico: di conseguenza, se non si è disposti a fare un salto indietro di un secolo, meglio lasciar stare. Ma se le ambientazioni retrò fanno per noi, è un’ottima macchina del tempo, con tanto di colpo di scena finale.
Una curiosità architettonica: i luoghi che descrive Alex Beer sono – erano – reali. Tra questi il pensionato di Meldemannstraße 27, dove Emmerich è costretto a vivere dopo le vicende del precedente Il secondo cavaliere, divenne tristemente famoso perché vi risiedette Adolf Hitler agli albori del nazismo.