Il caporalato rimanda ad un metodo di offrire informalmente un lavoro a quelli che sono ancora davvero “i dannati della terra”, cioè i più poveri delle aree agricole del Sud e gli immigrati dall’Africa. In Puglia, soprattutto nel Foggiano, per esempio, sono impiegati nei filari dell’uva da tavola o tra trulli e masserie a raccogliere per lo più pomodori, olive, frutta ecc.
Qui, per precisione nella cittadella pugliese di Ceglie Messapica e in quella umbra ( vicino a Perugia) di Morcella, due esponenti del mondo giornalistico centro-settentrionale, Caterina Emili e il marito Gigi Guastamacchia, una volta pensionati, hanno scelto di vivere.
Di questi luoghi Caterina, diventata scrittrice a pieno tempo, incide la scorza, frugando nelle radici di riti e miti secolari.Li ubica nelle strade, nei boschi, nei caffè, nelle trattorie , nelle campagne che si riflettono nelle conversazioni e nelle azioni di una sorta di trimurti sempre presente nelle sue narrazioni: Vittore, il Professore.
L’introspezione dell’Emili è fatta impavida mente, quasi con tagli radenti. Nella dissacrazione di stratificazioni e antropologie locali, non demorde.
Rispetto al romanzo precedente, Il volo dell’eremita, in quest'ultimo La scimmia e il caporale (sempre edito a Roma da E\O) non manca, seppure più cautamente, di lasciare trasparire un velo di mestizia dolce. Quasi un debito di soave comprensione.
Anche su di lei gioca il fascino minuto delle comunità proto-industriale che sopravvivono ai margini della modernità o intrecciate ad esse.
Nella Scimmia e il caporale, il reclutamento di ragazze straniere che effettuano i caporali pugliesi è opera di commercianti, anzi solo di venditori, di olio, formaggi e vino.
Questo mondo dai media viene evocato in genere con disgusto e ribrezzo. Non si sa resistere ad una sorta di interdizione nei confronti dello sfruttamento intensivo della forza-lavoro. Nei suoi confronti senza alcun pudore viene disattesa ogni norma di tutela, a cominciare dallo stesso salario minimo oralmente concordato.
Caterina Emili i caporali li ha messi al centro del suo ultimo romanzo. Non c’è ovviamente la minima accettazione né giustificazione di questa criminalità.
Ma a colpire il lettore è che questo infame modo di dare un’occupazione, per lo più stagionale, sia percepito come un elemento di realtà. Convive con altri quasi fosse scontato, Mario e parte di un’acquisizione sociale.
All’autrice (una pungente e mai accomodante giornalista della carta stampata del gruppo Monti e della Rai), non interessa fare recriminazioni o allinearsi alla solita denuncia del livello di degrado a cui si può giungere nel trattare degli essere umani come bestie.
In questa narrazione usa un’arma più raffinata e pervasiva. Studia un caporale pugliese, Giuseppe, sorprendendolo nel rapporto nuovo con una ragazza rumena, Katerina, quando questa non si limita più a concedergli prestazioni sessuali. Diventa furioso, e si ribella ad una domanda meno banale, che gli nasce dentro. L’Emili si tiene sulle sue, è molto riservata.Ma al lettore sembra di scorgere nel comportamento di Giuseppe la richiesta di essere amato. Un sentimento forte, insopprimibile, di cui la graziosa inserviente finurà per restare vittima forse inconsapevole.
Il paesaggio sociale che l’Emili descrive è anche in questo caso ben pennellato. Sembra apparentemente scontato. Non intende suscitare reazioni o alimentare solidarietà perché i caporali considerano il sesso un valore aggiunto del salario pagato.Infilarsi nel letto le ragazze, le lavoratrici è un’abitudine invalsa, acquisita.
Le loro mogli non se ne lamentano. Si sono rassegnate ad accettare questo moltiplicarsi delle relazioni sessuali dei loro mariti o partners come normali. Basta loro che non costituiscano attentati o pregiudizi al matrimonio che si snoda senza guizzi, passivamente.
Per le lavoratrici, per lo più ucraine o zingare, Il concedersi è un dovere, un obbligo. Viene accolta come una mansione inclusa nel salario. Non ci si può sottrarre così come non si levano alti lai se l’orario di lavoro viene prolungato o non viene compensato in proporzione.
«Ci andava a letto, lo sapevano tutti, moglie compresa. Oddio, aveva sempre obbligato le ragazze a fare i comodi suoi, ma poi era rima sto preso da Katerina e non infastidiva più nessun’altra.”
«E la moglie?».
«Oh, a lei non interessa. Basta che le stia lontano. Per questo ha aperto la trattoria. A volte credo che lo odi proprio”.
La vicenda si complica allorché Giuseppe non viene corrisposto da Katerina quando pretende, a calci e pugni, di essere se non l’unico amante quello favorito, prescelto.
L’Emili scava in questo soprassalto di senti menti, ma lascia al lettore un dubbio fino alla fine.
La morte violenta di Katerina, trovata da un cane che cerca un tasso, è opera del caporale Giuseppe, un personaggio descritto a tinte fosche, orripilanti, che si immagina respinto dalla sua dipendente. Oppure siamo di fronte ad una situazione psicologica nuova.
L’Emili lascia al lettore un diverso sospetto sulla scomparsa, per circa 3 mesi, della ragazza rumena. Che sia stata fatta fuori per non avere voluto accogliere il nascere di un amore nel solco di una passione erotica rituale prolungata, con più repliche e diversi destinatari?
Ma è proprio lo spuntare di questo delicatissimo fiore che al caporale sembra doveroso recidere. Per lui anche nel sentimento inconsueto prorompente che pare sbocciare, la schiava deve essere pronta ad assecondarlo. Non può rifiutarsi.
Sarebbe così scattata una reazione inedita. Si tratta di una vendetta che vede Kateina non solo mettere a repentaglio la sua vita,ma addirittura soccombere sotto i colpi di maglio di un’ira furibonda e inconsulta.
Lo scandaglio dell’Emili è affidato ad una scrittura densa ed efficace.I personaggi, le situazioni, le loro movenze e reazioni sono scolpiti con il lessico secco, ma avvolgente,direi anche sinuoso, in cui il pathos si condensa in frasi brevi e acuminate.
E’ il segno della maturità raggiunta dalla scrittrice romana che si muove tra Morcella e Ceglie Messapica. Non sono territori segnati da gusto burocratico, ma emblemi di realtà, figure antropologiche, tessuto di miti e tradizioni di infinita ricchezza. L’Emili ne mette a nudo, e a volte squaderna, ogni lembo. Lo fa con una rara arma rara e potente, quella di un linguaggio dove ogni parola non è un orpello, ma un concetto, quasi una sentenza.