Due voci si inseguono e si alternano per 41 brevi capitoli e un epilogo; si sfiorano, a tratti sembrano doversi incrociare, ma non si incontrano mai: i diversi caratteri tipografici sottolineano una lontananza che la narrazione provvederà invece a smentire. La prima voce - dominante - appartiene al Fratello Grande del titolo: sarcastico, irriverente, rimuginante , arrabbiato, inquieto, è il trentenne primogenito di un tassista siriano immigrato in Francia negli anni '80 (che però si definisce «mezzo arabo, mezzo curdo, ma prima di tutto comunista») e di una bretone che lo ha lasciato orfano. Col suo «arabo sgangherato da figlio di siriano e il francese da rom», è considerato un kafir dagli islamisti delle moschee e un beur dai francesi; cresciuto in una banlieue di Parigi, ha mancato il destino di calciatore (e idolo nazionale come Zidane), si è perso tra canne, alcol e spaccio di fumo, ma ormai si è sistemato, diventando conducente Uber. L'altra voce - sottile, acuta - è di Fratello piccolo. Fin da ragazzino affascinato dalla religione, sensibile alle ingiustizie del mondo. Infermiere, dottore mancato, ha un buon impiego all'ospedale Pompidou. Benché nessuno se ne sia reso conto, si è radicalizzato, ha abbandonato tutto ed è partito per la Siria. Non dà più notizie, circola solo una sua foto tra i combattenti, sul web. Tre anni dopo, nel quartiere, Fratello piccolo per molti è un esempio (da lodare sottovoce), per il padre e il fratello un dolore e una ferita. La polizia però sorveglia Fratello Grande - lo tiene al laccio, in realtà , ma non posso dire di più - per arrestarlo se mai dovesse tornare. E intercettarlo prima che compia un attentato.
Tornerà? O è stato inghiottito, come tanti giovani della sua generazione e con la sua storia, dall'inferno del Daesh? Su questa domanda Mahir Guven, figlio di rifugiati in Francia (turca la madre, curdo il padre), ha costruito il suo vivace romanzo d'esordio. Cosa accadrebbe nella vita del padre, che ha sempre lavorato duramente, fiducioso nei valori della République, per ritrovarsi proletarizzato dall'economia digitale, e del fratello, che si è riscattato dall'emarginazione per sudarsi un'esistenza normale, ma è finito schiavo della valutazione dei clienti e del misterioso algoritmo della piattaforma che controlla la sua vita? Le farà esplodere? Riuscirà il fratello a capirlo? Lo aiuterebbe? Lo tradirebbe? A chi dovrebbe essere fedele? Alla Francia, alla Siria che non ha mai visto, all'utopia di un mondo diverso o migliore, al codice del sangue? Frammento dopo frammento, Guven illumina la storia ormai comune di una famiglia di "stranieri per definizione": «né davvero francesi né davvero siriani, né davvero autoctoni né davvero immigrati, né cristiani né musulmani». Lo fa con una lingua colloquiale, inframmezzata di gergo e parole arabe (c'è un glossario a fine volume), invettive, turpiloquio, riflessioni corrosive. Libri scritti così patiscono nel passaggio da una lingua all'altra - che inevitabilmente depotenzia la forza del parlato originale - ma l'accurata traduzione di Yasmina Melaouah attenua le perdite. Come tutti i primi libri, Fratello grande ne contiene molti: è commedia familiare di periferia, già pronta per la sceneggiatura di un film , cronaca dei nostri giorni (nel romanzo si susseguono i riferimenti a fatti reali, dalle stragi di Charlie Hebdo e del Bataclan fino ai combattimenti a Raqqa e Deir-ez-Zor), noir metropolitano, biografia di un potenziale terrorista. Quale direzione sceglierà l'autore lo vedremo. Fra i suoi modelli cita esplicitamente Romain Gary, omaggiando il suo La vita davanti a sé. Intanto si è imposto come promessa della letteratura francese, guadagnandosi a 32 anni il premio Goncourt per il primo romanzo. Ha costruito una storia che intrattiene e fa riflettere senza moralismi e pregiudizi. E sedimenta nella memoria due personaggi struggenti.
Non tanto i due protagonisti - che pure bene incarnano il disagio della generazione giovane fra precariato, idealismo, assenza di radici - quanto i due vecchi siriani (il baffuto miscredente e la pia vecchia di Tadmor), vinti ma indomiti, fantasmi di un'origine che non si lascia obliterare né afferrare. Perché - osserva Fratello Grande - "come fa uno a ritrovare la sua strada quando non sa da dove proviene?" E quella, poi, è davvero la strada di casa?