Dopo aver affrontato temi come ludopatia e usura, questa volta la scrittrice e giornalista Caterina Emili ha deciso di parlare di caporalato nell'ultimo dei suoi libri "La scimmia e il caporale", presentato venerdì sera a Ceglie Messapica. La nobiltà d'animo e la potente fibra giornalistica che scorre nelle sue vene, l'ha portata a trattare un problema vivo in Puglia, in provincia di Brindisi, a Ceglie, dove risiede in estate per poi trasferirsi in Umbria. Qui ha avuto modo di confrontarsi con braccianti agricole, sue amiche, che le hanno raccontato la loro esperienza. E questo le ha scatenato dentro la voglia di scavare a fondo.
Caterina Emili, perché nei suoi romanzi ha scelto di parlare di caporalato?
«E' il quarto che scrivo ed è un romanzo di serie, nel senso che il protagonista è sempre lo stesso: vive a Ceglie anche se le sue inchieste, i suoi racconti si svolgono in tutta Italia. È quello che viene chiamato da alcuni critici un noir compassionevole. Scrivo dei libri io cui accadono fatti efferati, circondati da una popolazione e una quotidianità, che è tipicamente pugliese in questo caso. E in tale quotidianità non puoi non accorgerti della banalità del male, non puoi non sbattere la testa contro il caporalato, perché io cammino, esco, parlo con le persone coinvolte, che sono diventate mie amiche, donne, che mi raccontano la loro partenza all'alba. E qui subentrano prima di tutto il giornalista, che continuo ad essere, e poi questa nuova forma di denuncia del romanzo, che inesorabilmente parla di caporalato».
C'è un evento che ha fatto scattare dentro la scintilla della scrittura?
«Una sera sono stata a cena da alcune donne, braccianti agricole, che mi hanno raccontato delle cose che io sapevo, immaginavo, ma non così chiare, non così drammaticamente nitide. E allora ho detto: qui ci devo ragionare. Mi son portata questo pensiero dietro per mesi e ho cominciato ad affrontarlo con la mia tecnica: ho iniziato a fare indagini, sono andata dai carabinieri a farmi raccontare, sono andata a leggere i verbali di processi. Questa cosa mi stava dentro ed inesorabilmente è uscita».
Cosa è emerso dalla sua esperienza?
«Mi hanno spiegato che se non vanno a lavorare nella stagione a casa non si mangia, punto. Non ci sono soldi. E il caporale questo lo sa e quindi va a pescare, media tra il bisogno e il padrone, perché se una persona ti dà un euro al giorno, all'ora, è un padrone, non è imprenditore o datore di lavoro. Il datore di lavoro ti dà quanto ti spetta secondo contratto. Queste persone non riescono a trovare un datore di lavoro, ma solo padroni. E nel mezzo c'è questa figura terrificante del caporale, che non lavora, ma sfrutta le braccia degli altri, che gli fa pagare persino la bottiglietta dell'acqua, che le fa viaggiare in pulmini pericolosissimi. E, allora, la mia domanda è: perché questo succede? Perché gli ispettori non fanno il loro lavoro? Perché questi pulmini non vengono fermati? C'è questa connivenza tra Stato e caporale, che bisogna denunciare. Certo, le cose cambiano, ci sono persone straordinarie come il ministro Teresa Bellanova, che ha fatto una legge importantissima. Lo Stato ha la possibilità di sgominare, ha una grandissima forza di polizia, carabinieri, finanza, perché non lo usa contro il caporalato?».
Le ultime indagini e l'impegno delle forze dell'ordine dicono che è possibile ribellarsi e contrastare il fenomeno.
«Si, però è possibile solo se le persone si mettono insieme. Ci vuole quella che si chiama una coscienza di lotta, ci vuole una partecipazione, perché l'unione fa la forza».
Si può coinvolgere anche gli immigrati in un fronte unico contro il caporalato?
«Io ho visto un lavoro sindacale importante, in alcuni settori, indirizzato agli immigrati. Bisogna essere presenti, perché loro sono soli. Ma questa presenza deve essere continua ed enorme».
Come può aiutare la cultura?
«Ognuno deve fare quello che sa fare. Uno scrittore scrive un libro, un cantante fa una canzone. Ognuno faccia quello che sa fare, però, che dedichi almeno una parte del suo sapere a questo fenomeno».