Il distacco dalla vita che conta di chi vive in periferia, nelle banliueus francesi multietniche permeate dalla diffusione di un islamismo dalle molte sfaccettature, dove spesso i giovani sradicati cercano riparo e talvolta il riscatto estremo da una condizione imposta di alterità culturale e di subalternità: è uno dei motivi conduttori di Fratello grande di Mahir Guven, romanzo vincitore nel 2017 del premio Goncourt opera prima, proposto oggi in italiano dalle edizioni e/o (pagine 256, euro 16,50).
Il conflitto tra identità ed estraneità, vissuto e sofferto da costoro nel paese in cui vivono e che solo in parte sentono come loro patria, è qualco- sa che l’autore conosce molto bene: nacque infatti, apolide, a Nantes nel 1986, da padre curdo e madre turca! , e con queste credenziali si trovò a salire la scala dell’accettazione individuale e sociale in Francia. Un conflitto quotidiano nell’apparente procedere del presente, che come lui ha coinvolto da decenni senza sosta milioni di residenti di origine non europea e che lo scrittore puntella nel romanzo con puntuali riflessioni: «Per rigare dritti nella vita bisogna avere la colonna vertebrale bella solida. E a noi invece mancava qualche vertebra. Abbiamo compensato, ciascuno a modo suo»; «I genitori all’inizio li ami, crescendo li giudichi, e poi a volte li perdoni»; «Nella vita non c’è niente di gratuito e anche i miracoli si pagano». Protagonisti del romanzo
due fratelli, di padre siriano c! omunista e con una nonna bretone, che resteranno presto orfani! di madr e. Il maggiore, dopo aver fallito nella carriera militare, diventa autista di Uber, compensando fatica e frustrazione con la dipendenza dalla marijuana; il più piccolo, soprannominato "Cerotto", è infermiere. Ma curare i malati a Parigi non gli basta più: si convince che la sua presenza è necessaria nella terra di suo padre, dove la guerra produce ben altra quantità di sofferenze e atrocità. Nonostante la contrarietà della famiglia, il fratello piccolo parte, nella convinzione che «sarei arrivato come una colomba in mezzo alla morte». In una narrazione che procede a ritmo sempre serrato sul manto di una lingua dura, presa dai luoghi della quotidianità, con molte forme gergali arabo-francesi – dall’ormai consolidata beur/beurette (ragazzo/a di nascita francese ma di genitori magrebini) a wallah (la formula di giuramento) a toubab (chi ha accettato lo stile di vita occidentale) ecc. – la vicenda è narrata ecletticamente a due voci. Tra sconvolgimenti e segreti disvelati, apici strazianti e l’ancestrale pulsante dilemma tra la fedeltà alla legge e l’amore familiare; nell’agonia di un dubbio massacrante e nel timore che «è sufficiente una sola parola... Senza le parole le idee non possono circolare. E Dio sa quanto sono potenti le parole, così tanto che le idee ci si devono sottomettere. Sono pericolose le parole».