Novembre 1934. Spagna. Nel remoto villaggio di Biescas de Obago, quasi dimenticato alle pendici dei Pirenei e ignoto ai più, non arrivano che pochi echi distorti sia della Storia, dei conflitti che proprio in quegli anni lacerano il Paese e ne stravolgono continuamente l’assetto politico, sia della modernità che ha ormai toccato le grandi città, lontane come miraggi. A Biescas de Obago, si sopravvive sempre allo stesso modo, portando avanti consuetudini immutate da secoli e rispettando una gerarchia sociale rigidissima, in cui il “padrone” di ogni casa, come suo padre, e suo nonno prima di lui, esercita un governo “tirannico, assoluto, indiscutibile” su chiunque gli sia sottoposto.
Ora dovrò spiegare cosa significa in questo mio scritto, e nella regione dei Pirenei, la parola “casa”. La casa non è solo un’abitazione […]; no, qui la casa è tutto: sono gli spessi muri, le cantine a volta, i tetti di pietra, le segrete alcove; tutto questo e le persone che abitano la casa, e i campi che la circondano, con i coloni, i servi, i bambini che vi nascono, le bestie, gli attrezzi da lavoro e le suppellettili, l’olio delle lampade, le vigne e i frutteti, e persino il poco o molto denaro che con sacrificio viene messo da parte per comprare un mulo o una medicina. […] I cognomi non hanno importanza [,] ciò che conta è la casa cui ciascuno appartiene. (p. 26-27)
In questa realtà blindata e talvolta violenta, in cui gli uomini lottano quotidianamente per resistere alle angherie e ai capricci di una natura ostile, la conservazione della tradizione è fondamentale: nessuno può permettersi di rimettere in discussione gli assetti famigliari, i delicati equilibri di potere, la distinzione netta e invalicabile che oppone famiglie ricche e povere, padroni e servi. Su quest’ordine inalterabile si basano l’equilibrio e la stabilità sociale. Per questo, non si può che riscrivere nell’immaginario collettivo la vicenda di Ramòn di casa Badiello, umile pastore che aveva avuto l’ardire di innamorarsi di Alba, unica erede di casa Torrera, la più illustre e facoltosa del paese. La menzogna diventa a posteriori l’unico modo per esorcizzare il male, per negare ciò che non si può accettare, per condannare alla damnatio memoriae fatti scomodi e incresciosi per tutti gli abitanti. Si sa infatti che la bugia “quand’è condivisa, dapprima appare credibile, poi diviene possibile, infine si tramuta in verità” (p. 18). Solo una voce è fuori dal coro, e rifiuta la “perversa comunione” che per una volta mette tutti d’accordo: il maestro elementare, che a Ramòn era stato affezionato e ne aveva visto la forza, il carattere, la sensibilità. Solo lui, adesso, può raccontare la verità che prima aveva taciuto, “prostitu[endo] la [sua] penna per paura” (p. 20).
Al narratore si pone dapprima il problema di rendere il suo scritto decifrabile al lettore cittadino, e quindi di tradurre i dialoghi dal dialetto che risulterebbe incomprensibile a molti. Come in un famoso racconto di Verga, "Fantasticheria", anche qui per comprendere le asperità dell'umile vita contadina occorre farsi piccini, immergersi in quella stessa realtà, nel suo linguaggio fatto di silenzi, nelle relazioni basate su sentimenti primari e perlopiù estremi (amore, odio, ambizione...); si deve provare ad assumere la prospettiva dei personaggi. Del resto, alla ruvida, implacabile società contadina del meridione d'Italia di fine Ottocento, descritta dagli autori Veristi, rimandano anche altri aspetti: il determinismo implacabile, che lega ogni nuovo nato alla sua casata e alla sua condizione; il patriarcato inflessibile; l’importanza della proprietà (la “roba”); il rigetto di qualunque elemento possa alterare o sovvertire l'ordine della comunità; la totale incapacità di concepire l’esistenza di emozioni non utilitaristiche come l'amore; il sangue che scorre per lavare ogni onta. Come nel caso della Lupa di verghiana memoria, ciò che disturba l’assetto civile deve essere ricondotto all’ordine e, in caso di fallimento, espulso o eliminato: “tutti volevano che la vita tornasse come prima. Per questo Ramòn doveva morire” (p. 125). Il destino dei “diversi” è d’altronde già scritto per i compaesani, al cui punto di vista anche il narratore di questo romanzo continuamente regredisce, salvo poi (a differenza, questo sì, di Verga) intervenire per commentare e rettificare il pensiero comune:
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. (Giovanni Verga, “Rosso Malpelo”, Vita dei campi)
Quando composi quella prima versione dei fatti, tutti sostenevano che Ramòn di casa Badiello si era rivelato di carattere perverso e malvagio fin dalla più tenera infanzia. A prova di questa affermazione adducevano la sua propensione a rubare frutta dagli alberi, o ricordavano altre scelleratezze quali l’aver bevuto, quand’era chierichetto, il vino che don Felipe gelosamente custodiva. […] A questo io rispondo: sciocchezze, nient’altro che sciocchezze! (p. 31)
La rivolta di Ramòn, disposto a tutto pur di avere Alba, infiamma gli animi dei poveri di una parvenza di coscienza sociale; presto il giovane diventa simbolo di un cambiamento possibile per alcuni, “minaccia a un ordine le cui origini si perdevano nella notte dei tempi, […] un pericolo nascosto, un cancro mortifero che non sapevano come fermare” (p. 62) per i pochi che hanno invece qualche privilegio da difendere. I due giovani innamorati, nei modi diversi che sono loro concessi (lui con la ribellione aperta e la tenacia di una volontà ferrea, lei con una muta resistenza) rivendicano il loro – inammissibile – diritto a decidere, a essere considerati esseri umani:
Qui non vivono esseri umani, e nemmeno uomini e donne; qui esistono solo le case, e le case sono tutto: muri, terre, persone e bestiame. La volontà di casa Torrera si concentrava in una sola persona, don Mariano, al quale apparteneva tutto, come lui era appartenuto a suo padre non meno che il più umile dei servi e aveva dovuto sposare la donna che gli era stata imposta. No, non esistono esseri umani nella nostra terra, e chiunque voglia comportarsi come un essere umano mette in pericolo la sopravvivenza di tutti. (p. 122)
In equilibrio tra la tragedia e l’apologo morale, con uno stile fluido che riporta alla cadenza e all’oralità delle storie antiche, La brina sopra le spalle riesce a far emergere dal tessuto testuale riflessioni valide e necessarie anche per il presente: sullo statuto (e la fragilità) della verità; sulla responsabilità dei media nella trasmissione di un reale che risulterà sempre e comunque filtrato; sul pericolo rappresentato dalla cultura per l’ordine costituito e sulla necessità, proprio in virtù di questo, di coltivarla, ampliarla, orientarla nella giusta direzione; infine sul concetto di civiltà e sui valori su cui si fonda, o si dovrebbe fondare. Lorenzo Mediano dà prova di grande sapienza narrativa nel condurre il lettore a una conclusione forte e totalmente inaspettata, che rende il romanzo non solo letterariamente valido, ma anche appagante sotto il profilo dello sviluppo della trama.