Fare la guida per le scolaresche non era né è di certo il suo sogno. Andare e venire per la Polonia, snocciolare informazioni precise, puntigliose quasi, davanti ad adolescenti brufolosi e distratti. Stare lì a guardarli mentre pregano avvolti nella bandiera di Israele ma in realtà non capiscono nulla di quello che ascoltano. No, non era il suo sogno ma purtroppo è bravo, maledettamente bravo. Se ne sono accordi allo Yad Vashem quando ha iniziato il dottorato di ricerca sulla Shoah, di quanto fosse bravo, esatto nelle ricostruzioni, quasi scientifico. Certo, magari un po’ freddo, questa è l’osservazione che qualche volta gli muovono mentre accompagna i ragazzi. Provi magari a far loro immaginare il dolore delle vittime. Lui, però, fa questo lavoro controvoglia, per arrotondare lo stipendio e mantenere la sua famiglia; tutto sommato, la sua esatta conoscenza di ogni singolo campo di sterminio polacco, ogni processo di trasferimento, tortura, uccisione, smaltimento è un talento che non vorrebbe sprecare con quei ragazzini superficiali ma finché il direttore del massimo ente sulla Shoah lo reputa idoneo, lui si gode il riconoscimento del suo talento. Anche perché, di quando in quando, le visite coinvolgono autorità politiche di rilievo o militari dello Stato di Israele e allora sì, che si sente bravo, competente, apprezzato. In questa routine così calcolata e perfettamente controllata, però, qualcosa comincia ad andare storto: quando si trova a scavare con le mani nel terreno del campo di Sobibór capisce che qualcosa nella sua fredda ricostruzione storica sta cambiando…
Agghiacciante, questo romanzo. Duro, freddo, anzi no: glaciale. Il fatto che sia scritto tutto in prima persona e che non ci sia alcuna introduzione, alcun tessuto connettivo lo rende ancora più forte, più incisivo. Ci si ritrova dentro la vita del protagonista che, per sua stessa ammissione, è un uomo medio, non attratto dai grandi eroismi, che cerca un quieto benessere. Uno come qualsiasi lettore, diciamo. E non importa cosa si pensi intimamente della Shoah, il ritmo degli eventi inevitabilmente trascina con un senso quasi claustrofobico. Perché all’inizio la storia dei campi è perfino affascinante, anche se sembra assurdo; il protagonista parla di Tedeschi e mai di Nazisti e finalmente riesce ad ammettere a sé stesso che quella precisione ingegneristica con cui è stata condotta l’epurazione razziale è ammirevole, se privata di qualsiasi risvolto etico. Fa venire i brividi la scena in cui mostra ai ragazzi, adolescenti qualsiasi, né buoni né cattivi, una foto di alcuni gerarchi in posa. Cosa ne pensate, che impressione vi fanno? Beh, sembrano forti, decisi. Vincenti. Nel prosieguo della storia il distacco della ricostruzione scientifica comincia a incrinarsi, qualche crepa si apre e il passaggio nel campo di Sobibór costituisce il vero giro di boa narrativo ed emotivo del romanzo. Così, lo troviamo a leggere passi di Primo Levi ai turisti che accompagna, ma non tutti sono pronti a subire il passaggio personale che lui ha maturato dentro di sé. Una lettura straziante, condotta in maniera splendida senza manierismi né giudizi, quasi cinica, che ci accompagna nella consapevolezza che contro certi mostri la battaglia non è mai finita.