Essere in grado di far coesistere risate e dolore è un’arte insidiosa, che solo pochi sono in grado di gestire con competenza e senza cadere nel grottesco. Levan Berdzenešvili– nato a Batumi, Georgia, poi divenuto attivista politico, docente di Storia della letteratura antica, traduttore di tutte le commedie di Aristofane e attualmente anche deputato del parlamento georgiano – è uno degli eletti, e il suo La santa tenebra ne è un fulgente esempio. Il libro – pubblicato in Italia da Edizioni e/o nel 2018 – trae ispirazione da quanto realmente vissuto dall’autore come prigioniero politico nel lager sovietico di Baraševo, in Mordovia, tra il 1984 e il 1987; anni in cui la Georgia, terra natale di Berdzenešvili, faceva ancora parte di quell’immenso e delicato mosaico di terre e lingue chiamato Unione Sovietica.
Un testo che va a inserirsi quindi nella schiera di quei libri che hanno narrato l’orrore del sistema concentrazionario sovietico, una schiera in cui compaiono titoli celeberrimi quali I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov o Arcipelago Gulag del premio Nobel Aleksandr Solženicyn. La santa tenebra, però, se ne distingue per un elemento fondamentale: come ripetutamente sottolineato dalla critica, si tratta de “l’unico libro sui Gulag sovietici che è impossibile leggere senza ridere”. Non occorre spaventarsi, quindi, se sulla letteratura concentrazionaria non si è molto ferrati o se in genere si prediligono testi meno angoscianti: il libro di Berdzenešvili vale comunque la lettura.
La storia si apre ai giorni nostri sul lettino di un ospedale di Washington DC, dove il deputato dell’attuale parlamento georgiano Levan Berdzenešvili è stato trasportato privo di sensi dopo essersi sentito male mentre si trovava a casa di un’amica. Qui – complice l’esser stato soccorso da una dottoressa che, per somma coincidenza, è figlia di una ex detenuta in gulag – l’autore inizia a ricordare quanto successo negli anni della prigionia. I ricordi si fanno man mano sempre più chiari e luminosi, così luminosi che, a un certo punto, il fulgore diviene oscurità e questa “santa tenebra” inizia a parlare. È a questo elemento che si riferisce il titolo del libro, ispirato a un’espressione inserita da Galaktion Tabidze – emerito poeta georgiano – nella sua poesia In esergo, citata anche all’inizio del libro. Le voci con cui parla la santa tenebra sono quelle dei compagni detenuti incontrati da Berdzenešvili durante la prigionia nel campo, a ognuno dei quali è dedicato un capitolo che ne traccia un ritratto carico di una ironica profondità.
Il periodo in cui l’autore e i suoi compagni si erano trovati prigionieri dal campo ŽCH 385/3-5 corrisponde alla metà degli anni Ottanta, già anni di perestojkae glasnost’ e in cui il regime sovietico, presto destinato a sgretolarsi, aveva già allentato la propria morsa di terrore. Siamo quindi lontani dai sanguinosi anni Trenta, dalle purghe che avevano preceduto lo scoppio della Seconda guerra mondiale e dalle deportazioni delle prime generazioni di dissidenti. Siamo in un periodo in cui la televisione trasmette, accanto alla solita propaganda socialista, gli auguri di buon anno di Ronald Reagan; un periodo in cui in Unione Sovietica si iniziano a dare alle stampe il Requiem della Achmatova e altri testi prima proibiti dalla censura.
Eppure, nonostante la parziale apertura, si tratta ancora di anni fortemente contraddittori: anni in cui, per esempio, coloro che, come il prigioniero Miša Poljakov, sono stati incarcerati e deportati per aver diffuso quella stessa letteratura proibita che ora trova una via ufficiale di pubblicazione, rimangono tuttavia nel lager a scontare la propria pena fino alla fine. Anni in cui non scompaiono affatto la norma e il šizo (la cella di rigore), e in cui detenuti come Griša Feldman sono costretti ad attuare tragicomiche “epopee gastronomiche” per catturare e mangiare un colombo, pur di integrare le scarsissime razioni di cibo concesso.
La santa tenebra offre dunque un interessante spaccato della società sovietica negli ultimi anni di esistenza dell’Unione, anni che in Occidente vengono generalmente visti positivamente ma che, al contrario, in patria sono trattati ancora oggi con circospezione e disillusione.
Ogni episodio, come già sottolineato, è narrato con una disarmante ironia che non nasconde certo le durissime condizioni di vita a cui erano costretti i detenuti nei lager sovietici ma che, tuttavia, dona al libro una cifra di scarto che lo distingue da tutti gli altri testi che hanno trattato il medesimo argomento. Si tratta di un’ironia sottile, non sfacciata, ma che emerge da piccoli dettagli, contenutistici o linguistici.
La questione linguistica è infatti un altro degli aspetti notevoli del libro e che pertanto meritano una menzione. Il traduttore – Francesco Peri – si è dovuto cimentare con un testo che non è semplicemente scritto in georgiano (già di per sé una lingua poco studiata in Italia e per cui non esiste nemmeno un sistema di traslitterazione standard), ma che presenta una vastissima miscellanea di slang, lingue e parlate diverse, tutte presenti nel vastissimo e variegato “arcipelago” del sistema concentrazionario sovietico: si passa dai diversi dialetti georgiani all’armeno, dagli slang in uso tra i detenuti alle parole straniere pronunciate con storpiature russe o ucraine. Una varietà non priva di difficoltà e di cui è lo stesso traduttore a render conto nella sua nota introduttiva e nelle numerose (ma non in quantità eccessiva) note a piè di pagina, che chiarificano anche alcuni aspetti storico-culturali e rendono il libro accessibile ed estremamente piacevole anche a chi non avesse familiarità con la materia trattata.
La santa tenebra è dunque un libro che si presta a diverse categorie di lettori e non solamente ai cultori della materia – che possono comunque certamente ritrovarvi elementi conosciuti, qui ulteriormente approfonditi grazie a uno sguardo diverso dal solito (si vedano per esempio tutti gli episodi legati al samizdat). La lettura risulterà piacevole e stimolante anche per coloro che amano incuriosirsi e fare la conoscenza di luoghi del mondo tendenzialmente poco trattati ma che non per questo non hanno nulla di culturalmente interessante (e il merito va anche alla casa editrice, che sceglie di dare attenzione a testi da questa quasi sconosciuta repubblica del Caucaso, la Georgia). Oppure, più semplicemente, per coloro che amano trovare l’ironia in tutto ciò che la vita ci mette davanti, senza però rinunciare a temi di grande complessità, quali la dignità dell’uomo e la banalità del male.