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Volevo fare la Spice Girl: "Ora che sono Nato" di Maurizio Fiorino

Autore: Carolina Pernigo
Testata: CriticaLetteraria
Data: 7 maggio 2019
URL: https://www.criticaletteraria.org/2019/05/ora-che-sono-nato-maurizio-fiorino.html

Sin dalla carambola di commenti e frecciatine che si scatenano sopra la sua culla, e nelle prime pagine di questo breve romanzo di Maurizio Fiorino, si capisce che l'esistenza di Fortunato, detto Nato, sarà funestata dalla presenza di una famiglia ingombrante e caotica, cosa di cui peraltro il narratore sembra essere ben consapevole:

Con il cranio ricoperto di lanugine e vernice caseosa, già vivevo sulla mia pelle le due prime, inaudite violenze a cui inesorabilmente l'appartenenza al genere umano ci obbliga: l'incontro con la luce, dopo nove mesi di confortevole buio; e quello con i propri simili, sotto forma della mia sgraziata famiglia. (p. 10)

Con uno stile diretto e preciso, il piglio sicuro del ritrattista, e con un'ironia che scorre appena sotto la superficie del testo e tiene avvinto il lettore alla pagina, l'autore ci trascina nel Meridione d'Italia, dove lui stesso è cresciuto, e dove ogni nascita è un'occasione per festeggiare (ma anche per commentare, discutere, litigare, fare confronti):

Nascere nel più profondo Sud aveva avuto i suoi estrosi privilegi, per esempio i regali. I parenti avevano riempito casa Goldino di omaggi di tutti i tipi: ceste piene di cozze, vongole e sogliole, capocolli e salsicce, finanche due galletti ruspanti. (p. 11)

La situazione in cui il bambino cresce non è però delle più rosee, tra una madre malata immaginaria e preda di fulminanti attacchi di invasamento religioso, un padre superstizioso fino all'ossessione, una sorella che è una bugiarda seriale e un fratello che è il primo bullo balbuziente di cui si abbia mai avuto notizia... Nato cresce nel terrore di diventare un "miscuglio letale" tra le patologie dei suoi familiari, quando l'unica cosa che vorrebbe davvero, senza osarle confessarlo, è diventare una delle ballerine di Non è la Rai (almeno finché non conosce le Spice Girls).

Come se non bastasse, tutte le foto presenti in casa sembrano testimoniare di una famiglia Goldino serena e appagata, più o meno fino al momento della sua nascita, il che lo porta inevitabilmente a concludere di essere il responsabile dell'infelicità di tutti. Come potrebbe essere altrimenti, d'altronde, se l'ultimogenito è portatore di tutti i peggiori difetti? "Non ero juventino, non amavo il calcio e non credevo nella scaramanzia. In più volevo diventare una ballerina" (p. 58). Nato non può quindi che osservare e riportare senza filtri la realtà che lo circonda, talvolta profondamente grottesca, con uno sguardo in cui l'ingenuità diventa strumento di denuncia, ma anche fonte di straniamento, e conseguente comicità:

"Poi ho visto la vera luce. Ho sentito una mano e poi un'altra e un'altra ancora afferrarmi. Non ero più sola. Con me c'era Gesù, nostro salvatore" ci aveva spiegato con voce tremante di commozione. Ricordo di essermi stupito nell'apprendere che Gesù possedeva tre mani anziché due, come le persone normali. (p. 34)

Intenerisce profondamente il disincanto di Nato, un ragazzino che cerca di crescere e definirsi in un contesto totalmente anaffettivo, che a ben guardare può risultare esilarante soltanto per chi non ne fa parte e la cui carica di negatività neppure la leggerezza del narratore riesce davvero a stemperare. C'è qualcosa di profondamente serio, e di profondamente personale, al fondo del tessuto narrativo, nella lotta di Nato per accettarsi e farsi accettare:

Stavo combattendo a denti stretti una battaglia personale della quale tutti, a partire dalla mia famiglia e me compreso, eravamo all'oscuro: in un cosmo parallelo che dalla pubertà mi stava trascinando all'adolescenza, la mia guerra aveva avuto inizio. (p. 71)

La battaglia comincia con l'iscrizione a un corso di danza classica; prosegue con i dispetti di Sergio, devotissimo a Padre Pio, "futuro Papa" e carnefice spietato; attraversa il clima claustrofobico e sempre più intollerabile di una famiglia in cui "senza l'amore, la fedeltà si era tramutata in un sentimento di odio feroce" (p. 67) e in cui però i comprimari, pur facendosi male a vicenda, hanno bisogno l'uno dell'altro, per definire il proprio ruolo e la propria identità. Le tensioni e i litigi avvolgono Nato "come strati di pellicola trasparente" (p. 79), soffocanti e ineludibili. In questo senso, arriva come una boccata d'aria fresca un'estate trascorsa in un lido dalle cabine scalcinate, dove fa irruzione Dimitri, sguaiato e coloratissimo, con i suoi zoccoletti, gli anelli pacchiani, e il coraggio assoluto di essere se stesso: "quel ragazzo era la Spice mancante, ma a differenza del sottoscritto non faceva niente per nasconderlo" (p. 84). Dimitri è un raggio di sole all'interno del romanzo e della vita del protagonista; spiazza Nato con la trasparenza dei suoi sentimenti, che per lui sono talmente ovvi e naturali da convincere ben presto anche l'amico, ben più renitente, ad aprirsi.

"Io a danza ci voglio andare perché è un giorno diventerò una Spice".
"Ma che dici?" gli avevo chiesto fingendomi esterrefatto. "Sei un ragazzo, non puoi essere una Spice".
"Certo che posso".
"Non ti vergogni a dire queste cose?".
"Perché dovrei?". (p. 86)

Su Nato pesano i pregiudizi di una famiglia che si rifiuta di vederlo davvero, nonostante i segnali ci siano tutti, alcuni seminati accuratamente da lui stesso nella speranza di essere finalmente riconosciuto per quello che è. Non sono così i suoi cari, sempre più lontani da lui e l'uno dall'altro, a innescare il meccanismo della sua formazione, quanto la sfacciataggine solare di un ragazzino ucraino che fa le cose semplicemente perché si possono fare e perché contribuiscono a farlo sentire libero:

"Vuoi un po' di rossetto?"
"A cosa dovrebbe servirmi?"
"Se l'hanno inventato a qualcosa servirà". (p. 96)

In una Calabria che si indovina, più che essere esplicitamente additata dal romanzo, sul finire degli anni '90, Nato inizia a guardare alla sua famiglia con una consapevolezza nuova: "L'importante era apparire, esagerare, portare agli estremi tutte le situazioni. [...] Ognuno stava recitando un ruolo, ma qual era il mio?" (p. 127). Capisce quindi che l'unico modo per crescere è fare quello che i suoi parenti non sono in grado di fare: allontanarsi da quella realtà, trovare un proprio spazio nel mondo.

Rispetto alla sezione iniziale del romanzo, in cui l’autore indugia maggiormente su aneddoti e dettagli, quella conclusiva scorre molto rapidamente, procedendo per ellissi e importanti salti temporali: non si può non pensare che lo scioglimento celi in realtà, ponendola in un punto marginale del campo visivo, la tappa più difficile del percorso, una ferita che il testo non dice apertamente, ma che lascia intuire sottotraccia. L'ironia – che a tratti sfocia in scene dalla schietta comicità, come nel caso della dichiarazione fatta alla radio alla compagna di classe Valentina (“ero riuscito a trasformare in tragedia una semplice dichiarazione d’amore, dedicata per giunta a una ragazza che neanche volevo”, p. 111) – si coniuga felicemente con la grande sensibilità di Maurizio Fiorino, che osserva la realtà con lo sguardo di chi è abituato a vederla attraverso l'obiettivo fotografico. Attento al dettaglio, al taglio particolare, alla messa a fuoco (ma anche alla messa a nudo) degli individui nel loro modo di essere, l’autore immortala personaggi a tutto tondo a cui ti affezioni anche se sono carichi di difetti e di incongruenze, come se fossero parenti tuoi: scomodi, invadenti, ma ugualmente amati. In linea con questo, paradossalmente, dalla fine del romanzo emerge che la vera accettazione non è tanto quella dei familiari nei confronti di Nato, quanto piuttosto il contrario. Nel momento in cui il ragazzo diventato ormai grande accoglie la vera natura dei suoi, si libera una volta per tutte e può finalmente rivendicare la propria individualità, come il titolo dell’opera felicemente ci ricorda.