Famiglia è dove c'è amore, un posto dove essere accolti e protetti. Dovrebbe esserlo. Sì, dovrebbe. Ci affanniamo alla ricerca di un respiro che dia ristoro in un tempo nel quale l'aria è contaminata. Se di recente a Verona si sono lanciate parole d'odio e discriminazione durante il Congresso mondiale delle famiglie, il romanzo di Maurizio Fiorino, "Ora che sono Nato" (Edizioni e/o, 2019), con leggerezza, sensibilità, ironia, non risparmiando qualche lacrima, torna a ricordarci quanto la famiglia non sia un vincolo giuridico e che madre e padre non lo si è unicamente generando un figlio.
Quanto peso possono sopportare due piccole spalle? Quante lacrime possono venir soffocate ingannandosi che arriverà il giorno dei sorrisi? Per quanto si può girare la testa di fronte all'immagine di noi stessi in favore di ciò che gli altri si aspettano?
Fortunato, Nato, di fortuna non sembra averne. Nasce in una famiglia di disadattati dove le ossessioni definiscono ritmi e giornate con una naturalezza sconvolgente. Tina Griace, madre, lamentatrice seriale, in perenne lotta col mondo, malata di un egocentrismo tale da mettere in secondo piano persino i propri figli. Lei con la sua tosse emotiva, con le sue sguaiate pernacchie contro quel fallito del marito, col suo pessimismo cosmico che vede il nefasto, preannunciato da immancabili colpi della strega, sempre in agguato.
Peppe Goldino, padre, panettiere, un uomo la cui assurda scaramanzia serve a negare la propria responsabilità nelle disfatte personali e professionali. Un essere talmente paranoico da non rinunciare a mutande maculate e a cartelloni funerei con le immagini dei giocatori della squadra avversaria, per propiziare la vittoria della sua amata Juve.
E poi ci sono loro, Betta e Tonio, juventini dalla nascita, rispettivamente sorella e fratello maggiore di Nato. Lei, con una passione incredibile per la menzogna più teatrale, lui, primo esempio di bullo balbuziente. Dimenticavo, il tutto avviene in un paese del profondo Sud italiano a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Premesso ciò, dove può collocarsi un ragazzino come Nato, che piuttosto che giocare a pallone vuole ballare e diventare una delle ragazze di Non è la rai?
Da nessuna parte. Lui non ha un posto. Alla disperata ricerca di una zona franca, la scova in un mondo che costruisce nella sua testa di bambino, dove si rifugia quando la realtà circostante diviene intollerabile. Ma quel mondo bussa troppo forte per ignorarlo e Nato si ritrova, paralizzato dall'imbarazzo, di fronte al padre durante una performance con indosso una gonna.
Prende coraggio e proclama la sua passione per la danza. I genitori, dopo tentativi di persuasione e obiezioni varie, decidono di assecondarlo, celando l'onta di un figlio che balla dietro una schiena sbilenca che necessita di venir raddrizzata. Ma l'omofobia lo colpisce, violenta gli ruba le scarpette da danza e gli sputa in faccia la vergogna che dovrebbe provare.
Termina l'era di Non è la rai. Il bruco non si trasformerà in farfalla, continuerà a strisciare. Nel mentre Betta e Tonio hanno lasciato casa: per inventarsi una splendida carriera accademica la prima, per dar sfogo al suo talento calcistico il secondo, che sorprendentemente, una volta lontano dalle mura domestiche, comincia a parlare con fluidità.
La vita è triste, l'infelicità che condiziona i suoi genitori si sta insinuando sotto l'epidermide. Ma dal disastro di Cernobyl arriva Dimitri, orfano alla ricerca di aria pulita grazie alla benevolenza di una ricca donna dalle unghie perfette, il cuore generoso, tremendamente affezionata all'alcool. Dimitri è un tornado, con i suoi zoccoletti da femmina, con i tanti braccialetti colorati a decorarlo, con occhi celesti che non temono di gridare al mondo il suo bisogno di esserci.
Quel bambino rappresenta ciò che Nato ha deciso di sigillare dentro sé per sopravvivere. Dimitri vuole essere una Spice Girl e regalerà a Fortunato la possibilità di vivere quella magia insieme. L'estate finisce troppo presto però. Il tempo ripulisce dai brufoli il volto di Nato, i denti si raddrizzano grazie all'odioso apparecchio, la sua figura acquisisce quella bellezza che continua però a essere assente intorno a lui.
Tenta di confessarsi, affida quel difficile compito ad una lettera scritta per Nico, il suo primo amore, quello col quale ogni notte dorme abbracciato, le cui labbra ha assaporato fumando a metà la stessa sigaretta. La lascia lì, in bella vista, non possono non leggerla. Si dice che l'amore che un genitore prova per il proprio figlio valichi i confini dell'immaginabile, ma questo è l'ipocrita idillio che maschera le più oscene mancanze.
Lo spediscono da uno psicologo, tentano di avvicinarsi a loro volta per guarire dall'interno ciò che scelgono di non vedere. Ma lui non è come i suoi fratelli, non potrà mai essere la mimesi di Tina e Peppe, non accetterà di recitare un ruolo già scritto. Grazie alle parole, al suo talento per la scrittura, bilanciato da una discalculia che gli ha causato non pochi problemi, Nato guadagna la libertà. Con un tema vince infatti una borsa di studio che gli permetterà di studiare a Parigi per un anno.
La composizione doveva vertere sul tema dell'amicizia e lui non ha fatto altro che scrivere di ciò che di più autentico ha sperimentato in una esistenza di menzogne e falsità: Dimitri. Il suo migliore amico gli ha regalato un paio d'ali per volare verso la vita che la sua famiglia gli ha negato.
Questo libro fa riflettere con leggerezza su diritti civili e umani che sembravano conquistati, ma che rischiano di scivolare via senza preavviso dalle esistenze di noi tutti. Fiorino è abile nello strappare un sorriso proprio quando la commozione si affaccia. Con uno stile fluido e fresco troviamo contrapposte essenza e apparenza, il grottesco scollina nel drammatico per poi camuffarsi nuovamente nelle trame della realtà. Tra le pagine ci viene ricordato che la responsabilità del mondo nel quale vivranno i nostri figli è nelle mani di ognuno di noi, nelle scelte che ci guideranno a seconda del lato della barricata che occuperemo.
Dedico questa recensione a tutte quelle persone che vengono considerate malerba, gliela dedico appunto perché se per qualche benpensante non siamo altro che erbacce fastidiose da estirpare, dovranno fare i conti con chi mette radici anche sull'asfalto, tra le crepe di un muro. Dovranno tener di conto che a noi basta poco per sopravvivere, proprio come alle erbacce, e non chiniamo la testa, perennemente alla ricerca di luce.