Nato è all’apparenza un ragazzo qualunque, un adolescente timido e impacciato, figlio di una madre nevrotica ed egocentrica e di un padre umile e scaramantico, che vive in una piccola provincia del Sud Italia. Eppure Nato, fin da quando è venuto al mondo, sembra dover scontare una colpa, una macchia scura e incancellabile: quella di essere diverso. Diverso dai suoi coetanei e dai suoi genitori, diverso per i suoi gusti, per i suoi modi, per il suo orientamento. Un ingranaggio difettoso di una grande macchina che, nella sua follia e atavica ignoranza, funziona alla perfezione.
Si può forse riscontrare un’eco de I Malavoglia di Verga nella storia della famiglia Goldino del nuovo romanzo di Maurizio Fiorino, una famiglia che sembra schiacciata da un destino tragico e inevitabile, in un contesto culturale e sociale in parte mutato da quello raccontato dal grande scrittore verista, ma che riscontra ancora oggi le arretratezze e i pregiudizi di un tempo. Nato però, a differenza dei protagonisti de I Malavoglia, riuscirà ad affrancarsi da questo sistema, a uscire fuori dalla gabbia in cui è stato imprigionato, a spezzare il ritmo ciclico della vita che caratterizza ancora le realtà più retrograde del profondo Sud dello Stivale.
Con una scrittura lucida, essenziale, sfacciata, quasi fotografica, Maurizio Fiorino ci accompagna nella vita, nella testa, nei dubbi e nei tormenti adolescenziali di Nato, il protagonista di “Ora che sono nato”. Assieme a lui viviamo le tragedie familiari, le incomprensioni, le ipocrisie e la crudeltà dell’amore coniugale, e sempre con lui, ci emozioniamo, ci infatuiamo di quel ragazzo che non potremo mai avere, scopriamo il valore della vera amicizia e affrontiamo il difficile percorso dell’accettazione di sé stessi e della propria sessualità.
Maurizio Fiorino è nato a Crotone nel 1984 e in questo libro ha messo dentro tanto della sua infanzia ribelle, delle sue origini, del mare che bagna le coste assolate del Meridione e della sua passione nel catturare gli attimi. Maurizio è infatti anche un fotografo di fama internazionale, che ha studiato all’International Center of Photography di New York e che ha esposto in diverse gallerie newyorkesi e italiane (qui il suo sito).
Lo abbiamo intervistato per capire quanto di suo è finito dentro la sua ultima opera e se la fotografia e la letteratura possano convivere assieme. Questo è quello che ci ha raccontato.
Il libro è ambientato in un piccolo paesino del sud Italia dove sussiste una mentalità bigotta e retrograda. Anche tu sei nato e cresciuto in una piccola città del Meridione. In che modo la tua infanzia ha influenzato la stesura di questo libro?
Alcuni episodi della mia infanzia hanno influenzato inevitabilmente tutta la mia vita. Sono stato un bambino disordinato, non capito, le maestre prima e le professoresse dopo, loro che erano le prime a non capirmi, chiamavano casa, per parlare coi miei genitori. Anche loro, cosa avrebbero dovuto capire? Sono cresciuto in una famiglia semplice, non avevano gli strumenti necessari per capire le mie anomalie. Io stesso ho impiegato anni a capirmi. In famiglia ero considerato strambo e basta. La matematica è stata il mio incubo peggiore, da adulto ho scoperto di essere discalculico. Cosa avrei dovuto fare, tornare a scuola con un bazooka e dire a tutti che avevo ragione io? Crescere in queste circostanze mi ha reso molto forte su alcune cose, estremamente debole su altre. Da adulto ho dovuto lottare contro una forte insicurezza, certamente non una prerogativa calabrese, ma l’esser cresciuto nel profondo sud ha fatto sì, per ovvie ragioni storiche e sociali, che nel mondo mi considerassi un eterno secondo. Pensa a un crotonese che, dal nulla, senza capire una sola parola di inglese, se ne va a vivere a New York. Esperienza sgangherata, la mia, che un giorno, forse, scriverò. Allo stesso tempo, sono cresciuto a sole e mediterraneo, al suono della chitarra battente e coi colori accesi che mi infiammavano la mente.
Nato, il protagonista del libro, è un ragazzo sensibile, goffo e timido. Durante la sua adolescenza viene spesso bullizzato dai suoi coetanei per i suoi gusti e per i suoi atteggiamenti considerati “strani”. Cosa pensi di un fenomeno oggi ancora così diffuso come il bullismo? Anche tu sei stato vittima di bullismo quando eri più piccolo?
Lo sono stato, lo racconto un po’ in questo libro. Il bullo prende sempre di mira chi ha il coraggio di essere libero, perché lui non ci riesce, o non può. Perciò, in fondo, è come se aggredisse una parte di sé, tra l’altro godendo, visto che l’aggredito non reagisce, quindi nella sua mente il vincitore è lui, ma in realtà oltre a fare del male all’altro fa male anche a sé stesso, godendo della propria miseria. Io, quando ero bambino e andavo a danza, ero stato preso di mira da un piccolo bullo che, pensa un po’, dopo l’uscita di Amodiomi ha scritto chiedendomi scusa per avermi fatto quello che mi aveva fatto, un episodio che francamente neanche ricordavo. Questo dimostra che a me era scivolato tutto addosso, lui, invece, sedici anni dopo era ancora lì a pensarci. Mi ha confidato che era geloso di me, perché io potevo andare a danza, lui no.
Crescendo, Nato capisce di essere attratto dai ragazzi, ma le difficoltà che incontra lungo il percorso di accettazione di sé sono tantissime. Anche e soprattutto la famiglia, che in situazioni di questo tipo dovrebbe essere considerato un “porto sicuro”, si rivela invece un ambiente chiuso e ostile. Pensi sia difficile oggi per un ragazzo dichiararsi omosessuale, soprattutto in una realtà molto piccola del sud Italia?
Credo sia difficile ovunque, a nord e a sud, in Italia e nel mondo. Basta leggere, banalmente, anche la letteratura di genere, è identica, che sia italiana o, che so, americana o francese. Nel mio libro non è mai specificato il sud. Si intuisce, certo, ma volevo dare alla storia una palcoscenico universale. In alcune parti del mondo è ancora più dura, così come in alcune famiglie è più facile che in altre. La propria sessualità è il nostro ioprincipale e tutto ciò che gira attorno ad essa è quindi vitale. Sentirsi malati, o strani, o diversi, fa sì che poi nella vita ti senti malato, o strano, o diverso. L’accettazione è necessaria, parlare con la propria famiglia è difficile, ne prendo atto, ma è fondamentale per la propria libertà.
Nonostante tutti gli scontri e le incomprensioni, alla fine la famiglia dimostra, a modo suo, di volere bene a Nato e di accettarlo così com’è. Qual è l’idea di famiglia che vuoi far trasparire da questo romanzo? Esiste la famiglia perfetta secondo te? Oppure la famiglia è semplicemente quella che ci capita, con tutte le sue contraddizioni e le sue problematiche interne?
La famiglia perfetta, grazie al cielo, non esiste. È il mondo a non esserlo, è l’idea stessa di perfezione a essere imperfetta, te la immagini una famiglia perfetta in questo mondo? Per fortuna esistono i conflitti e i terremoti dell’anima, consentono agli artisti di muoversi senza paure nei territori devastati, e di creare in santa pace mentre tutto intorno è guerra.
Quanto c’è di autobiografico in questo libro? Ti ritrovi in qualche tratto dei personaggi o sono tutti solamente frutto della tua fantasia?
Poco importa. I personaggi di questo libro sono talmente plateali che, anche se si trattasse di un autobiografia, sarebbe comunque la cronaca fedele di un’opera teatrale. Quindi, il mio romanzo potrebbe anche essere autobiografico ma è la famiglia, essendo messinscena, a non esserlo.
Che rapporti hai con la fotografia rispetto alla scrittura? Prediligi una delle due o sei appassionato ugualmente a entrambe?
Queste due forme d’arte sono parte di me, coesistono, senza scindere l’una dall’altra. Non riuscirei a scrivere senza avere nella mente un’immagine come punto di partenza, così come non riuscirei a fotografare senza conoscere la storia che si nasconde dietro lo scatto. Ho sempre avuto una forte passione per un tipo di fotografia, quella di Diane Arbus su tutte, che implica un certo coinvolgimento psicologico, quasi morboso, dell’autore sul soggetto.
Pensi che la tua passione per la fotografia abbia in qualche modo influenzato anche lo stile e le tematiche affronti nei tuoi libri?
Lo credo. Non mi piace girare attorno alla frase, abbellirla a tutti i costi, cercarne gli aggettivi più sofisticati per agghindarla come un albero di natale. Scrivo come fotografo. Quando fotografi, quello che hai davanti, quello è. Clic e via.
Hai altri progetti che stai portando avanti in questo momento? Ti piacerebbe scrivere un altro libro?
Purtroppo per me, o per fortuna – ancora non l’ho capito –, la scrittura non è più una questione di scelta o piacere. Si è trasformata in altro. Non parlo del fatto di essere diventato un autore pubblicato, ma di vivere in funzione di essa. Per scrivere libri ho bisogno di un disordine mentale sopra ogni livello immaginabile e, quando scrivo, la mia vita ne risente. Ma così è. O forse, al contrario, vivo scrivendo. Nella mia testa c’è ancora confusione a riguardo. Per me la scrittura non è un piacere, è una complicazione. Una storia ti arriva addosso all’improvviso, non puoi farci nulla. È come se un passante, per strada, ti sbattesse contro, facendoti cadere a terra. Come puoi far finta di nulla? A quel punto puoi rialzarti, oppure puoi decidere di rimanere lì, sull’asfalto, anzi metterti ancora più comodo, a schiena in giù e con le mani dietro la testa. Mentre tutto il resto della vita scorre intorno a te, tu guardi le stelle.
Leggi spesso libri di autori italiani? Hai preferenze particolari? Come vedi il futuro della letteratura italiana da qui a 10 anni?
Ho molto rispetto per la ricerca letteraria che sta portando avanti da anni Isabella Santacroce. Ho recuperato tutto ciò che mi mancava di Paolo Giordano, di cui avevo letto solo La Solitudine dei numeri primi, e nel suo ultimo romanzo, Divorare il cielo, a proposito di quello che ci siamo detti poco fa riguardo la scrittura e la fotografia, ho trovato delle affinità impressionanti fra alcune sue parole e il lavoro fotografico di Ryan McGinley; ho da poco letto Sacha Naspini, fantastico; mi è piaciuto da morire L’Arminuta e ho riscoperto da poco Elsa Morante, grazie alla mia amica Angela Bubba e alla fotografa Marta Giaccone, che proprio ad Arturo sta dedicando un bellissimo progetto fotografico. Credo che, in Italia, stiamo per andare incontro ad anni terribili, complici le politiche disgraziate di questo governo e, temo, del prossimo che verrà. Spero di sbagliarmi. Ma quando si tocca il fondo, di solito, gli artisti iniziano a piantare i loro semi per ricreare la bellezza perduta. E in questo senso ho molta fiducia nella letteratura italiana.