Di solito per decidere se comprare o non comprare un libro, mi affido alla lettura delle dieci o venti righe iniziali. E molte volte quelle poche righe, lette in fretta, in piedi, nella luce spesso violenta di una libreria, sono sufficienti a non farmi pentire della scelta.
Così è accaduto anche con L’alcol e la nostalgia, di Mathias Enard, scrittore francese ancora poco noto al grande pubblico, ma balzato alle cronache per aver vinto il premio Goncourt nel 2015 con Bussola. Qui però parlo di un libro antecedente, un libricino di appena cento pagine, uscito in Francia nel 2011 e ripubblicato in Italia dalle edizioni E/O nel 2017.
La copertina promette bene: un treno scuro, antiquato, in corsa lungo un paesaggio freddo, grigio, innevato. E nelle righe iniziali, nella descrizione di una camera d’albergo, che potrebbe somigliare a mille altre, ho provato delle sensazioni familiari: “le tende con i gigli, la moquette piena di macchie, la tappezzeria color culo di scimmia, non ti veniva neanche voglia di tornare a dormire”, immaginando che con il sole sarebbe stato anche peggio, e aggiunge: “La solitudine e la noia di una stanza d’albergo dove non hai niente da fare”.
Ed è spesso così quando ci troviamo in una camera d’albergo, ci sentiamo spaesati e incapaci di fare qualunque cosa. Eccoci, dunque, a condividere già qualcosa con il protagonista e, immedesimati in lui, vogliamo scoprire cosa accadrà.
Romanzo breve, ma intenso. Così intenso da far pensare a una vicenda realmente vissuta. Enard per renderlo ancora più “reale” ricorre all’artificio di chiamare il protagonista con il suo nome, Mathias (al lettore piace sempre credere che la storia sia accaduta veramente al suo autore). Inoltre è scritto in prima persona, con tono intimistico, da diario personale, a cui si alternano momenti di seconda persona, quando il protagonista si rivolge direttamente all’amico morto suicida, mentre viaggiano insieme su un treno leggendario, la Transiberiana che copre una distanza siderale, oltre “9.000 chilometri senza alzare il culo dal tuo scompartimento sobbalzante”, la ferrovia più lunga del mondo.
E ci troviamo davanti due storie. Una collocata nel “presente”, il viaggio in treno che Mathias compie per accompagnare l’amico al suo paese d’origine. E l’altra collocata nel “passato”, quando Vladimir è ancora vivo e insieme a Mathias e Jeanne formano un trio inseparabile. E così mentre il treno attraversa la Russia e l’Asia settentrionale, correndo tra Mosca e Vladivostok, attraversando gli Urali e la vasta e profonda Siberia, si snocciola con flash brevi e struggenti la loro storia, quella vissuta insieme.
Mathias parla all’amico, in tono scherzoso, come se avesse ancora la possibilità di udirlo, e gli racconta l’ultima novità di Jeanne. Quella di farsi appendere con dei ganci da macellaio in uno scantinato di Mosca, e poi dondolare come un quarto di bue a un metro e mezzo da terra, “una passione capace di portare all’estasi e al culmine del piacere”.
Si tratta della Body Suspension, una pratica folle e dolorosa, in grado di provocare una specie di trance con la sensazione di “perdere” il proprio corpo.
Passa poi a rievocare i primi tempi trascorsi insieme, quei momenti ormai perduti, come se riguardassero altri, dove riaffiorano con nitidezza Jeanne e Vladimir. La prima è stata la sua fidanzata a Parigi, poi studentessa all’università di Mosca e amante di Vladimir, “un cosacco appassionato di letteratura, poliglotta e colto”.
La ragazza ha mantenuto buoni rapporti con Mathias, e un giorno l’invita nella sua casa russa, gli fa conoscere Vladimir, gli interminabili viali della città, e anche le bellezze di San Pietroburgo (l’Ermitage, la prospettiva Nevskij, l’ultima abitazione di Dostoevskij).
Tra i due ragazzi all’inizio c’è diffidenza, “come due cani che si contendono il territorio”, ma presto diventano amici, grazie alla comune passione per i libri, il bere e il fumare. Ne scaturisce un trio affiatato, ma non troppo. Perché Mathias mal sopporta che Jeanne non sia più sua e baci l’altro.
Al dolore d’aver perso la fidanzata, si aggiunge anche il tormento della pagina bianca che cerca di “sbloccare” aiutandosi con droghe varie, alcol e rileggendo con attenzione i racconti di Raymond Carver. “Rileggevo Cattedrale e appena ero un po’ carico di alcol provavo a scrivere un racconto, ma non c’era niente che funzionasse.”
Nel lungo viaggio che porterà Vladimir alla sua meta finale, non mancano gli echi di un passato che riguarda non solo i protagonisti del romanzo, ma anche la storia della Russia. E così vengono fuori i campi di lavoro forzato, i detenuti del gulag Perm’-36, dove tutti gli alberi sono finiti nelle falegnamerie del gulag per essere trasformati in cassette della frutta e fiammiferi.
“Si dannavano con le motoseghe contro i tronchi ghiacciati delle betulle” e nelle varie operazioni per tagliare tutta quella legna, più di qualcuno ci lasciava un dito o una mano, sotto gli occhi indifferenti dei guardiani. E oggi quei luoghi disperati, dove sembrano riecheggiare ancora le voci dei condannati, annusarne il sudore acre e vederne il sangue, sono diventati un museo (finanziato da un gruppo di ex detenuti).
All’altezza di Ekaterinburg saltano fuori anche i fantasmi imperiali, quelli dei Romanov, uccisi senza pietà dai rivoluzionari. E sembra quasi di sentirne le urla disperate e gli spari funesti, mentre Mathias ritorna a pensare al suo amico, alla fine imminente del loro viaggio.
Scenderanno a Novosibirsk, ma il treno continuerà la sua corsa. Lui vorrebbe arrivare fino in fondo, all’ultima stazione, quella di Vladivostok, e vedere il Pacifico.
“Se rimanessi coricato in questo scompartimento scivolerei fino al lago di Bajkal; me lo immagino liscio, senza un’increspatura, intrappolato in un inverno che non finisce mai”.
Vagheggia così nella sua testa quella destinazione lontana, ignota, e che in pochi vedranno, perché di solito si scende prima della stazione finale. “Non si arriva mai alla fine dei viaggi, ci si ferma sempre prima”.
La bravura di Enard sta anche, o soprattutto, nell’esattezza di certe descrizioni che restituiscono un sentire comune. E non mancano le atmosfere suggestive che catturano immediatamente l’attenzione del lettore: i fiumi ghiacciati, i chilometri di betulle innevate, i villaggi sperduti, le casette di legno colorato.
Nel romanzo l’elemento predominante è senza dubbio la nostalgia, più dello sballo che ci si aspetterebbe da droghe e alcol, di cui il trio fa uso abbondante. E l’altro elemento prevalente è senz’altro l’amicizia, più dell’amore. E quello che rimane alla fine è pacata rassegnazione e una vaga speranza, sintetizzata nell’ultima frase del libro: “Prima o poi sorgerà il sole”.