Il protagonista scrive una lunga lettera al direttore dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah a Gerusalemme, nel tentativo di giustificare un accaduto, che viene svelato solamente nelle ultime righe del romanzo. L’uomo inizia raccontando dei suoi studi in storia e spiega come poi, spinto dalla circostanze, si sia ritrovato a fare da guida a gruppi di israeliani in visita ai campi di concentramento in Polonia. All’inizio, da bravo storico, ha affrontato con distacco il racconto degli avvenimenti, sciorinando con accuratezza una serie di dati e fatti e arrivando quasi a provare un’inconscia ammirazione per l’organizzazione dell’apparato di distruzione di massa. Con il tempo però, oltre le mere annotazioni storiche, ha iniziato a percepire la moltitudine di uomini, donne e bambini che hanno trovato la morte in quei luoghi, e il dolore di ognuno di loro ha inciso in lui talmente in profondità da portarlo a smarrire se stesso.
Nella baracca dormitorio, tra i letti a castello di legno, spiegai cosa era accaduto in quel posto. Odio, dissi. E malvagità, e interessi economici. Ecco ciò che è successo qui. Per la prima volta osai discostarmi dal consueto copione stabilito dallo Yad Vashem e recitato da tutte le guide, e mi tremava la voce. Qui è stata cancellata l’illusione chiamata uomo.
Mi è piaciuto.
È un libro duro, scritto in modo feroce, in cui il protagonista racconta, senza filtri, sia le proprie emozioni sia le crudeltà perpetrate nei campi di concentramento. Un libro che pone un sacco di domande a cui non sempre sono stata in grado di dare una risposta. Ma se lo scopo della lettura è anche farci interrogare su noi stessi, questo libro colpisce nel segno.
Voto: 5/5