Il superstite è un piccolo noir, che Massimiliano Governi scrive con stile asciutto e conciso. La storia è si un racconto criminale (nel nord Italia, una famiglia di allevatori di polli viene sterminata a seguito di una rapina finita male: sull’unico superstite graverà il peso di dover sostenere il processo al criminale serbo autore della strage) ma l’impressione è che Governi voglia soffermarsi su altro: in particolare, sul percorso di formazione del protagonista. Un percorso di formazione “tardivo” verrebbe da dire, visto che si tratta di un uomo adulto, con già moglie e figlia: ma, come si intuisce dalle pagine del romanzo, un uomo che ha sempre vissuto la propria vita in maniera passiva: non ha mai viaggiato, non ha mai letto un libro, non si è mai veramente interessato al mondo che gli sta intorno. La strage in cui restano uccisi i genitori, il fratello e la sorella, è l’evento scatenante che lo costringe a confrontarsi con il mondo e con sé stesso. Al di là dell’elaborazione del lutto (che, di fatto, non avviene: anzi, sembra quasi che il protagonista viva con distacco la morte dei suoi cari), dopo la strage egli comincia a viaggiare, a vivere con maggiore consapevolezza il rapporto con la moglie e con la figlia, a guardare con occhi diversi le persone che gli sono intorno (molto bella la caratterizzazione dei personaggi di contorno, uno su tutti il giornalista che gioca a fare Truman Capote); persino l’autore del massacro della sua famiglia non viene più visto come un semplice assassino, ma come un essere umano da comprendere e con cui confrontarsi. Un percorso di formazione che durerà quasi vent’anni e che, cominciato con lo sterminio di una famiglia (la propria), si concluderà con l’incontro con un’altra famiglia (quella del carnefice), aprendo (forse) uno spiraglio di luce sul futuro di un uomo nuovo.