Scrive una lettera al direttore di Yad Vashem (l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah), il protagonista e voce narrante del libro di Yishai Sarid. Una lettera lunga tutto il libro per raccontare la sua esperienza e la sua trasformazione negli anni di lavoro come guida nei campi di concentramento. Per spiegare come la memoria continuamente rivisitata abbia trasformato lui in un mostro e, nello stesso tempo, come questa stessa memoria, sotto i colpi di maglio della sottocultura del secondo millennio sia diventata essa stessa un mostro che nulla più ha della pietas a cui i milioni di morti hanno diritto.
Lui, il protagonista, avrebbe voluto intraprendere la carriera diplomatica ma gli è stato impossibile. Aveva vinto un dottorato di ricerca sulla Shoah, poi, per caso, gli era stato chiesto, in qualità di esperto dei campi di concentramento, di fare da guida ad un gruppo. E in seguito erano arrivate altre richieste, aveva dovuto trasferirsi in Polonia, tornando ogni tanto a casa dalla moglie e dal figlio, i tour dei campi erano diventati un lavoro di routine- era un’ottima guida. Se difettava in qualcosa era in una mancanza di calore, di partecipazione. Lui era l’esperto che mostrava dove fossero le baracche, dove le camere a gas, che spiegava che cosa succedeva, le differenze campo per campo, l’orrenda scientificità dell’operazione dello sterminio di massa.
Ma, lentamente e in modo strisciante, è come se il morbo del genocidio avesse infettato pure lui, come se, in una qualche maniera perversa, la mostruosità di quanto è accaduto facesse diventare pure lui un mostro che prova soddisfazione nel descrivere scene raccapriccianti per risvegliare un maggiore interesse da parte di quei gruppi di studenti che hanno sempre l’occhio fisso sul cellulare, trasformando la memoria stessa in un mostro spaventoso- come suggerisce l’ambiguità stessa del titolo che si presta ad una interpretazione duplice. Il progressivo deterioramento della personalità del narratore culminerà, a livello inconsapevole, in una allucinazione di fiamme e di voci e- su un altro piano, lucido e più orrendo- nel suo prestare consulenza per l’elaborazione di un video gioco ispirato allo sterminio. Perché viviamo in un mondo in cui domina la legge del mercato, tutto è buono per fare soldi, non c’è più niente di sacro, neppure la memoria dei morti. E a noi sembra di leggere una versione moderna della “Modest proposal” di Swift con la sua ironia selvaggia. La reazione del protagonista davanti alla perfezione visiva di questo video gioco in cui il giocatore può anche simulare di tirare fuori i cadaveri dalle camere a gas è in bilico fra l’orrore suscitato da quello che vede e l’ammirazione per l’accuratezza del gioco che lui stesso ha partecipato a realizzare. E sono anche gli stessi sentimenti tra cui si divide la sua mente quando pensa ai nazisti e si pone la domanda, perché non riusciamo ad odiare i tedeschi?
Perché- e la rivelazione della risposta che gli si prospetta è paralizzante- alla fin fine non si può non ammirare i tedeschi per la determinazione e l’accuratezza con cui hanno portato a termine quello che si erano prefissi. Perfino il loro aspetto- l’eleganza delle divise, l’occhio ceruleo, la finezza dei lineamenti- suscita ammirazione, anche in una persona malvagia come lo era il famigerato Heydrich. Si può negare, ma è così, e il nostro narratore lo dimostra mostrando una foto del gerarca privato di segni distintivi e chiedendo agli studenti di un gruppo quali sentimenti quell’uomo suscitava in loro.
“Il mostro della memoria” è un libro da leggere. Perché l’autore non ha timore di mostrarci che cosa stiamo facendo alla memoria, come questa venga sfruttata, banalizzata, svuotata del suo doloroso contenuto, ridotta ad un oggetto di mercato, come tanti, così come il Giorno della Memoria viene fatto diventare come una delle tante feste ‘comandate’- san Valentino, Halloween, della mamma, del papà e chi più ne ha più ne metta. E la memoria che doveva riunirci in un silenzio di cordoglio diventa un oltraggio a tutte le vittime.