E finalmente si torna a parlare della Georgia e non più soltanto associando il nome “Georgia” a quello del suo figlio più famoso e temuto, l’uomo baffuto conosciuto come Josif Stalin (uomo di ferro) ma che in realtà si chiamava Džugašvili, un cognome che contiene la sua provenienza (il finale in –švili dei cognomi georgiani significa ‘figlio di’). Quest’anno, in cui l’ospite d’onore alla Fiera del Libro di Francoforte è proprio la Georgia, dopo un lungo e pressoché totale silenzio, due diverse case editrici pubblicano due libri di scrittori georgiani.
“La santa tenebra” di Levan Berdzenišvili (casa editrice e/o) è un libro importante e necessario, una testimonianza che ci arriva da un Gulag- abbiamo ancora in mente l’impatto fortissimo dei libri di Solženicyn negli anni ’70: c’è stata la glasnost, c’è stata la perestrojka, c’è stata la fine dell’Unione Sovietica ed era da prima di tutto questo che non leggevamo un libro come quello di Berdzenišvili, più del resoconto di un’esperienza durissima di vita vissuta, un esempio di come sia possibile non lasciar morire il cuore e il cervello anche quando la semplice sopravvivenza fisica è uno sforzo.
Il Gulag in cui Berdzenišvili è stato internato insieme al fratello Davit si trovava in Mordovia, una delle tante repubbliche della Russia europea. I due Berdzenišvili, dissidenti, fondatori di un partito repubblicano a Tbilisi, erano stati prelevati dalla loro casa con le modalità tristemente note. Ma i dettagli sulla ‘loro’ storia ci vengono detti negli ultimi capitoli, prima, a sottolineare l’importanza di ogni internato, c’è una carrellata di ritratti degli altri ospiti forzati del campo. Georgiani, armeni, russi, detenuti politici che devono produrre 92 paia di guanti ciascuno, ogni giorno. E sono tutte persone straordinarie, così come è straordinario Levan Berdzenišvili che racconta della loro vita quotidiana. Dalle sue parole sembra quasi che il Gulag non sia un campo di prigionia ma un resort, un luogo di intrattenimento dove il lavoro è un passatempo ed una gara di maggior produzione e dove si intavolano discussioni come in una palestra socratica. Domande e risposte tra persone che hanno, ognuna, un campo di specializzazione diverso, brindisi con il thermos del tè, un tamada, un ‘toast maker’ che, secondo l’usanza georgiana, orchestra i brindisi (c’è una statua a Tbilisi che celebra questo personaggio essenziale in ogni simposio).
Si ipotizzano situazioni, si parla, si parla con intelligenza e acume, con ironia (che è dire l’opposto di quello che si vuol intendere), con umorismo. Si parla di politica (c’è anche chi venera tuttora Stalin ed è degno di rispetto ugualmente), di letteratura, di religione, di appartenenza, di cucina georgiana (ah, il khachapuri al formaggio, viene l’acquolina in bocca, mentre un ragù di pecora portato da una delle mogli e andato a male è nauseabondo), di come regolamentare lo sciopero della fame, di piccole lotte per ottenere piccoli diritti, come l’autorizzazione a scrivere lettere alla famiglia nella propria lingua.
Non ci si stanca di leggere. Si prova ammirazione e rispetto per chi è stato capace di affrontare una prova così dura in questo modo, preservando la propria dignità. E si finisce per pensare che la grande letteratura non nasce quasi mai da condizioni di vita facile tra agi materiali.