Fin da ragazzo Levan Berdzenišvili sognava di tradurre l'Iliade nella sua lingua, il georgiano. «Ci sono riuscito e ne sono fiero –. Ma ciò di cui sono davvero orgoglioso è il fatto di essere stato prigioniero in un gulag». Tre anni in tutto, dal 1984 al 1987, con l'Urss già in declino e l'indipendentismo che si risvegliava in Georgia come altrove. «Non è stato il liberalismo a mandare in pezzi l'impero sovietico – spiega lo scrittore –, sono state le nazioni che hanno rivendicato la loro libertà». Nato nel 1953 a Batumi, in Georgia, e da sempre attivo in politica, Berdzenišvili è autore di un libro che in poco tempo è diventato un classico della letteratura concentrazionaria, La santa tenebra, appena pubblicato in Italia da e/o nella traduzione di Francesco Peri. «Qualcuno ancora si stupisce degli episodi divertenti che racconto, ma l'umorismo è un elemento ricorrente in tutte le testimonianze sulla vita nei campi di concentramento – osserva Berdzenišvili, ospite in questi giorni alla Buchmesse –. Per me la vita nei gulag è stata una grande esperienza di umanità».
Come si diventa dissidenti nella Georgia sovietica?
«Anche soltanto andando a scuola. Nel 1968, all'epoca dell'invasione della Cecoslovacchia, un insegnante ci tenne una lezione sulla legittimità dell'azione intrapresa da Mosca. Un discorso impeccabile dal punto di vista dell'ortodossia comunista, ma che ebbe l'effetto di farmi aprire gli occhi».
Ed è a quel punto che si è ritrovato patriota?
«No, noi georgiani siamo patrioti da sempre. Nel corso dei secoli, del resto, abbiamo conosciuto molte dominazioni, sempre affrontate con un discreto sangue freddo. Nello stesso tempo, però, non abbiamo mai dimenticato il nostro diritto all'indipendenza».
Da dove viene questa consapevolezza?
«Dalla nostra cultura nazionale che si fonda sulla lingua, in particolar modo sulla poesia. È un patrimonio riconosciuto da tutti, al di là delle convinzioni politiche. I miei genitori erano comunisti senza tentennamenti, ma il loro amore per la letteratura georgiana era ugualmente fuori discussione».
Questo rappresenta un valore anche dal punto di vista politico?
«Il dominio sovietico ha lasciato in eredità l'abitudine al partito unico. Ricordo che nel 1987, quando ero stato da poco scarcerato, mi capitò di incontrare Margaret Thatcher durante la sua visita a Tbilisi. Le chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto, secondo lei, prima che la Georgia diventasse un paese democratico. Quarant'anni, mi rispose. Direi che dobbiamo aspettare ancora un po'».
Qual è il ruolo della religione in questo contesto?
«Dal punto di vista formale, la stragrande maggioranza dei georgiani si professa credente, ma molto spesso ci sono discrepanze tra la fede dichiarata e i comportamenti personali. Prenda il caso dell'Europa: la Chiesa ortodossa è tutt'altro che favorevole all'ingresso del Paese nell'Unione, ma questo non impedisce che i georgiani continuino a nutrire l'opinione contraria. Il cristianesimo agisce semmai a un altro livello».
A cosa si riferisce?
«Al sentimento di solidarietà che ho sperimentato nel gulag e che ancora oggi è una caratteristica inconfondibile della nostra società. Negli anni Ottanta il regime di detenzione poteva essere meno rigido che in passato, ma era nell'interesse delle autorità recidere il legame dei prigionieri con le loro famiglie. Da un momento all'altro poteva arrivare un telegramma con cui la moglie annunciava al marito di averlo lasciato. Era qualcosa che tutti temevano, tranne noi georgiani: se anche avessero voluto lasciarci le nostre donne non l'avrebbero mai fatto mentre ci trovavamo in una situazione di difficoltà, il discredito che ne sarebbe derivato sarebbe stato intollerabile. Magari non siamo un granché nella buona sorte, ma nelle disgrazie diamo il meglio di noi stessi. Sono persuaso che sia questa la nostra vera religione. Ed è il motivo per cui, quando me lo chiedono, mi proclamo un cristiano non credente».