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Ho perso la testa per questo libro (che ritorna tra noi!): “Il minotauro” dell’enigmatico Benjamin Tammuz

Testata: Pangea
Data: 9 ottobre 2018

Le note biografiche lo scarnificano – c’è poco da sapere, in effetti – piuttosto, ricordo lo shock dovuto all’opera – devastante – mi chiesi, sollevando occhi inceneriti, e questo da dove viene?

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Viene da Israele, Benjamin Tammuz, nato da ebrei russi, in Unione Sovetica, un secolo fa (nel 1919), trapiantato in Palestina dall’età di cinque anni, scuole a Tel Aviv, studi alla Sorbona, il tic per l’arte – è pittore, scultore – la pratica come giornalista presso Haaretz, le gite colte a Londra – dal 1979 al 1984 è scrittore residente all’Università di Oxford. Muore nel 1989.

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Di shock simili ne ricordo un paio. Pedro Paramo di Juan Rulfo e Il mondo estremo di Christoph Ransmayr. Intendo: sono libri da cui, pregiudizialmente, ti attendi un lago e in cui scopri, navigandoli, un oceano. Il minotauro fa lo stesso effetto. Un effetto, devo dire, subdolo: al principio, desiderai esserne l’autore. Poi, cominciai a comprarne una sfilza di copie – per rileggerlo, per regalarlo. Ora non ne ho più.

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Non fui l’unico a essere sorpreso. Il libro, pubblicato nel 1980, fu giudicato semplicemente geniale da Graham Greene. I giornalisti non sapevano che pesci prendere. David Quammen, sul New York Times, scrisse che Il minotauro “è uno strano solitario romanzo di amore e spionaggio, sulle attese e i compromessi di cui gli uomini si cingono… molto simile a ciò che fa William Faulkner in L’urlo e il furore e Lawrence Durrell nel ‘Quartetto di Alessandria’”; l’onesto recensore della Kirkus Review, negli stessi giorni, era l’estate del 1981, rimarca gli “echi da Franz Kafka e Joseph Conrad”; Maureen Corrigan, l’altro ieri (era il 2013), dal soglio del Washington Post, legge la riedizione del Minotauro e gli pare una mostruosità che sta tra Lolita – “alcune pagine le avrebbe potute scrivere Humbert Humbert” – e Il grande Gatsby. Una fiera di giganti – Faulkner, Durrell, Kafka, Conrad, Nabokov, Fitzgerald – per arginare lo stupore. Io ci vedo Kafka, ovvio. E una struttura narrativa che è come un cappio al collo.

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il minotauroIl romanzo è questo. Un uomo – anzi, “un tale” –, che “era un agente segreto”, ha quarantuno anni, vede una ragazza, che ne ha “all’incirca diciassette”, in un autobus e la riconosce: è lei, che si chiama Thea, la donna del suo destino. “L’ho vista d’un tratto sedersi davanti a me sull’autobus. Non ho avuto alcuna difficoltà a riconoscerla”. Il tale, allora, comincia a scrivere delle lettere a Thea – che non lo ha riconosciuto – e a determinarne – spiandola, talento di professione – l’esistenza. Thea è lusingata e imbronciata (“non è carino lasciare le cose in sospeso come fa lei”). Lui è determinato, letale, romantico (“Ti sto togliendo le scarpe e sto baciando le dita dei tuoi piedi. Le conosco, così come conosco ogni linea del tuo corpo. Non irritarti, non aver compassione. Non avevo mai conosciuto la felicità finché non ti ho incontrata”). Nel libro, scritto con stupita freddezza, con suprema indifferenza, scopriamo l’infanzia del “tale”, veniamo a sapere che, dopo alcune rovinose missioni spionistiche, ha dovuto modificare i tratti del suo viso – irriconosciuto, irriconoscibile –, assistiamo alla fine dei vaporosi amanti di Thea.

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Il romanzo pare perfetto. Il lettore è recluso nell’hangar di due solitudini, che mai verranno in contatto. Il rapporto tra i due è così sacro che il disvelamento sarebbe assassino. Soprattutto, spiamo – dacché i guardoni siamo noi, estasiati dalle lettere di questo amante misterioso – l’esito di un amore del tutto mentale: un uomo è fulminato dal viso di una donna – che non si accorge di lui – e decide che è lei e nessun altra. D’altronde, l’amore è così: disciplina, ossessione, spreco. Si ama solo l’irraggiungibile. Per amare bisogna essere un romanziere, consapevoli che i sentimenti sono giungla, sbandata di tigri.

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Di certo. Il buono e il cattivo del Minotauro, romanzo che ha la nitidezza degli assoluti, è che è come se Tammuz ti mettesse una benda in gola. Prima ti fa godere – infine ti soffoca. La prima volta mi ha sorpreso, la seconda mi ha stordito – ho voluto studiarne l’involuta, volumetrica tecnica narrativa – la terza mi ha sfiancato. Ora Il minotauro torna in libreria, nella collana ‘Le Cicogne’ delle Edizioni e/o (pp.176, euro 11,90), che raduna i piccoli classici della casa editrice. Spinto dall’entusiasmo per Tammuz, ho letto un paio di altri suoi romanzi, Requiem per Naaman e Il frutteto. Buoni romanzi, per carità – del tutto incomparabili a Il minotauro.

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Nello scarno ‘coccodrillo’, pubblicato il 21 luglio 1989, il New York Times ricorda che Tammuz, “morto di cancro, a 70 anni”, tra i massimi scrittori israeliani contemporanei, “è stato uno dei leader del movimento Canaanita, che ha cercato di costruire una nuova nazione ebraica, in opposizione al giudaismo, per aggirare il conflitto con gli arabi. Il movimento non ha mai ottenuto alcun supporto da Israele ed è sostanzialmente riconosciuto per il ruolo importante nell’aver trasformato l’ebraico biblico in un linguaggio moderno”. Secondo Ron Kuzar (Hebrew and Zionism, New York, 2001), alcuni membri del movimento facevano parte delle falangi paramilitari sioniste Irgun e Lehi. Probabilmente anche da questo retroterra proviene il “tale” del Minotauro.

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Resta il titolo: chi è il Minotauro? Il “tale” dei servizi, innamorato dell’amore impossibile, impassibile nell’esercizio della sua professione, fino alla fine, crudele, viene da dire. Ma si è mai visto un Minotauro che scrive lettere d’amore? Minotauro – il ‘mostruoso’ – è l’innocenza di Thea, speculo, io. Il labirinto è l’esistenza, che dietro l’angolo ci fa sommuovere con risposte inattese – labirinto nel labirinto nel labirinto, è la vita umana. Il “tale”, in fondo, credendosi Teseo, è preda compiaciuta dell’innocente – del suo sogno di innocenza.

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Comunque rivolti il cervello, Il minotauro di Benjamin Tammuz è un romanzo bellissimo. Quasi decisivo. (d.b.)