Il georgiano Berdzenišvili, che fu un internato, smonta con feroce ironia la macchina repressiva sovietica.
"Il Kgb radunava là dentro i più brillanti cervelli del Paese: se resistevi alle angherie, diventati coltissimo".
Dove sarà ora Irak'li il latinista? Dove saranno Iona, il filosofo bon vivant e Merab, uno che parlava come Socrate? E poi Anderson il bibliotecario, Maksimovic e Petrov, i cuochi, Kucharjuk, il barbiere, Saar e Muzikevichius, addetti alle caldaie, Lismanis responsabile delle docce e proiezionista, Lejkus il magazziniere, Krainik il quartiermastro... Erano loro i pezzi grossi, i «pridurki», le «teste di rapa», l'aristocrazia del Gulag, come diceva Solzhenicyn.
Dalla dimenticata Georgia ci arriva il racconto di uno di loro, gli ultimi prigionieri dell'ultimo Gulag sovietico, immutato nella spietata (e grottesca) liturgia concentrazionaria, ampiamente attivo quando Mikhail Gorbaciov era già al potere: il Campo speciale numero 3, Dubravlag, nella repubblica autonoma di Mordovia. Levan Berdzenishvili ha passato laggiù tre anni, i «migliori della mia vita», dice con quello humour freddo che attraversa tutto il libro: «Mi sono trovato tra persone eccezionali che il KGB si era dato un gran daffare per riunire tutte insieme in un solo posto». L'editore e/o pubblica ora il suo primo libro in italiano, La Santa Tenebra, mirabile campionario di umanità: baltici, bielorussi, ucraini, caucasici, georgiani... Una intellighenzia erede di raffinatissime culture secolari e irriducibili al ferro e fuoco sovietico.
Da Tbilisi, con squisita cortesia e indomita passione, Levan ha risposto alle nostre domande. «Sono nato nell'ottobre 1953 a Batumi, sulla costa del mar Nero. Mio padre era giudice e mia mamma insegnante di letteratura. Mi sono laureato nel '77 con una tesi su Aristofane e la commedia. La mia è stata una gioventù più o meno felice, ma come georgiano mi sono sempre sentito in un paese occupato e che meritava di essere libero. Ed era un sentimento comune tra i miei amici. Dopo l'invasione della Cecoslovacchia, nel 1968, sono diventato antisovietico».
Ed è a questo punto che ha cominciato l'attività politica fondando un partito che si chiamava "repubblicano". Perché?
«Era il 1978, il partito era clandestino, il nostro programma era l'indipendenza della Georgia. Intendevamo una Res Publica che comprendesse tutti, avevamo per modello il partito repubblicano degli Stati Uniti, che consideravamo il più importante oppositore del regime sovietico. Oggi il Partito Repubblicano della Georgia è un partito liberale, membro dell'Alleanza dei Democratici e liberali in Europa».
E pubblicavate un giornale che rappresentava una sfida politica pubblica.
«Il primo numero uscì in sole 13 copie. L'avevamo battuto interamente con la macchina per scrivere io e mia moglie. C'era un "appello" al popolo georgiano, non firmavamo gli articoli con i nostri veri nomi, ma con degli alias. Il giornale venne diffuso tra gli studenti. Si chiamava Samerklo, ovvero "Campanile"».
E lei fu arrestato, ma solo quando Andropov, il capo del KGB, arrivò al Cremlino, nel 1982. Perché?
«Perché il KGB locale era molto più attivo rispetto all'era Brezhnev e ci furono parecchi arresti. Andropov aveva anche ordinato la chiusura degli "shashlik restaurant" che in Georgia godevano di maggiore libertà rispetto alle altre repubbliche. Noi eravamo accusati di attività e propaganda antisovietica».
Dunque dal carcere avete vissuto il passaggio d'epoca con l'avvento di Gorbaciov, nel marzo 1985. Com'è stata la perestrojka vista dal Gulag?
«Un periodo davvero strano per noi prigionieri politici. Alcuni erano stati arrestati per aver stampato in una sola copia Kotlovan (la trincea) di Platonov... Solo nel febbraio 1986 venne presa la decisione di liberare i prigionieri politici, uno per uno, non per amnistia. E così anch'io sono stato rilasciato ma avevo già scontato la mia pena. Il regime del Gulag era uguale a quello dei tempi di Brezhnev, Andropov e Chernenko».
A distanza di trent'anni come giudica Mikhail Gorbaciov?
«È stato un sovietico dalla testa ai piedi, si credeva sicuro di poter costruire un comunismo dal volto umano: un'assurdità. Lui e Shevardnadze (georgiano, all'epoca ministro degli Esteri e uomo di punta del regime, ndr) non sapevano guardare le cose nel profondo, volevano arrivare alla democrazia senza dare l'indipendenza alle repubblica, il che era impossibile: l'Urss rappresentava una prigione per le Nazioni, è stato uno dei più terribili imperi della Storia e quando la cosiddetta Patria e il mitico "popolo" sovietico sono collassati, io ero felice».
Nel suo libro si leggono le storie di un'incredibile e stupefacente varietà umana, differente da quella dei libri di Solzhenicyn e Shalamov. Si ha la sensazione di partecipare a un circolo letterario. È stata una sua scelta narrativa o i prigionieri erano molto diversi?
«Ai miei tempi il Gulag era certo molto meno crudele rispetto agli anni Cinquanta o Quaranta, ma anche il libro di Irina Ratushinskaya Grigio è il colore della speranza è molto più cupo del mio; e persino in Primo Levi si trova un po' di humour. io credo che la vera differenza stia nel carattere dei georgiani e dei russi: non siamo per natura allegri e ottimisti. Da filologo ricordo più facilmente le discussioni letterarie, ma c'erano anche dibattiti tra matematici e informatici e molto altro ancora. Avevamo più tempo. Il Gulag è stata una grande scuola di collaborazione tra le nazioni».
Come se l'Urss avesse realizzato nei "Campi" l'ideale multiculturale... Adesso l'Europa è in preda a una contagiosa febbre nazionalista, la stessa o molto simile a quella dell'inizio del secolo scorso cui è seguita la seconda guerra mondiale. Come la vede da Tbilisi?
«Per me l'Urss non fu così multiculturale. Nonostante il vantaggio della comune lingua russa, non era facile trovare un equilibrio tra multiculturalismo e nazionalismo: in Georgia tutte le realtà locali si sentivano in pericolo. Quel che manca oggi nel mondo intero è la cultura e senza cultura cresce il nazionalismo. Nono soltanto Putin e Orban, ma anche i leader "buoni" hanno un livello di istruzione ridicolo. Homines nullius libri: sono uomini che non hanno mai letto un libro».
In Georgia dieci anni fa avete avuto una sanguinosa guerra con Mosca, cui poi è seguita la Crimea. Lei pensa che Putin voglia davvero ricreare uno spazio geopolitico russo?
«Sì, sta creando una nuova Unione Sovietica, inventando enormi problemi con i paesi vicini. È una linea storicamente destinata alla sconfitta che però, ora ha successo, a causa della debolezza occidentale».
In effetti Putin è incredibilmente diventato un modello politico per l'ungherese Orban, ma anche da Salvini, Le Pen e dagli ambienti tradizionalisti viene visto come il difensore della cristianità in contrapposizione al laicismo dell'Unione Europea. Che ne pensa?
«L'espressione "democrazia autoritaria", per me è un ossimoro. In Russia non c'è nessun tipo di democrazia, non c'è una reale opposizione, non ci sono vere elezioni, né si intravvede un'evoluzione. Nel post Putin avremo un "disgelo" con la condanna del culto della personalità, come avvenne con Stalin. Non c'è alcuna chance di cambiare le cose attraverso le elezioni. La popolarità di Putin nella Russia di Tolstoj, di Orban nell'Ungheria di Petöfi, di Salvini nell'Italia di Leonardo o di Le Pen nella Francia di Victor Hugo per me sono la spiegazione di come Hitler ha vinto nella Germania di Goethe e Mussolini nell'Italia di Dante. Ci serve più cultura, è l'unica soluzione».
Levan, come si vive in Georgia oggi? Noi la conosciamo come terra di buon vino, antica poesia e per aver dato al mondo Stalin.
«Innanzitutto è la terra del poeta Rustaveli, poi di criminali come Stalin e Shevardnadze. La mafia non è forte, il paese è più o meno sicuro. I problemi veri sono la disoccupazione, la povertà che tocca il 90 per cento della popolazione e il fatto di avere il 20 per cento del territorio sotto occupazione russa. Anche chi ha lavoro è in difficoltà. Io insegno in tre università e ho un contratto con la radio e con la televisione: eppure i quattro stipendi non sempre mi bastano per vivere. Ma il clima è mite, c'è il mare, ci sono le montagne, si mangia bene e ci vivono raffinati poeti. È un paese di terrificante bellezza».