«Eccole, le ferite nascoste che ci spingono inesorabilmente verso l'abisso, si sono sviluppate come un cancro nella memoria e nella coscienza e ormai niente può più guarirle». Arriva un momento in cui il protagonista e narratore di "La perfezione del tiro" di Mathias Enard (Edizioni E/O), traduzione di Yasmina Melaouah, pp. 176, €18) è obbligato a guardare in faccia la realtà. La vita ordinata che conduce, quella routine simile a mille altre - casa, lavoro, la madre malata, la ricerca di una badante - è corrosa da una menzogna ingestibile. Perché il lavoro di questo giovane uomo senza nome è la guerra. E la guerra semina vittime anche nelle case lontane dalla zona del conflitto - un conflitto qualsiasi di quella galassia araba alla quale Enard ha dedicato "Bussola", premiato con Goncourt e Booker Prize. L'uomo è un cecchino, e affronta il lavoro con serietà maniacale: gli appostamenti, la concentrazione totale che ogni sparo richiede sono descritti con un distacco che in alcune pagine ricorda "lo zen e il tiro con l'arco" di Herrigel. Finché il suo lavoro rimane a distanza va tutto bene. Ma quando è di turno ai posti di blocco si aprono le prime crepe. Avere rapporti diretti con le persone provoca emozioni, porta a scelte non razionali, i comportamenti sfuggono al controllo e si risveglia la coscienza. La macchina da guerra che parla nelle prime pagine si trasforma in un uomo. Con tutti i rischi che questo comporta.