Quand’è che si diventa scrittori? Esiste un momento in cui chi scrive può dirsi davvero tale e non più semplice scrivente, sempre che una simile distinzione abbia senso? E come distinguere questo momento, in base a quale criteri marcare una linea tra il prima il dopo? Stando a quanto ha dichiarato tempo fa in una lunga conversazione con Carlo Mazza Galanti, Mathias Énard pare avere le idee molto chiare in proposito: si diventa scrittori se così decidono gli altri. Da un certo un momento in poi lettori e i critici cominciano «a utilizzare quella parola riferendosi alla tua persona, fino a quando non finisci con l’ammetterlo anche tu».
È certamente un’affermazione opinabile o quanto meno relativa. Che dire infatti di coloro che sono giunti a una simile consacrazione soltanto postumi? Che in vita non furono mai scrittori? Per non parlare di un altro e forse ancor più scivoloso aspetto: il rischio per nulla peregrino, visti i tempi, che sia in primo luogo la reputazione sociale di cui l’autore gode a decidere delle sue qualità letterarie. È anche vero però che le idee degli scrittori sull’attività che hanno scelto di esercitare non vanno mai prese troppo alla lettera e ancor meno intese in senso universale. Ha senso soppesarle più per ciò che gli scrittori lasciano trasparire della loro esperienza personale e dunque del senso che danno alla propria opera. E in effetti, nel percorso di Énard, il momento in questione esiste e lo si può facilmente individuare nella pubblicazione di Zona, risalente al 2008. È stato a partire quel romanzo che il suo nome ha cominciato a circolare in tutta Europa, imponendosi come una delle voci letterarie più interessanti del continente. Da allora, pur nella varietà di temi e ambietazioni, i tratti essenziali del suo modo di narrare non sono più mutati.
Azzardi formali
I suoi libri hanno tutti la forma di un lungo monologo. Ruminazioni erratiche, enfatiche, spesso anche erudite. Il motivo del viaggio affiora incessante come un basso continuo; a volte viene soltanto evocato nel ricordo come in Bussola, in altri è l’occasione che dà la stura al racconto, come appunto in Zona, il cui monologo copre un viaggio in treno da Milano a Roma. Altra presenza immancabile: il Medio oriente, di cui lo scrittore francese è una grande conoscitore, e le turbolente aree che fanno da cintura al cuore della vecchia Europa lungo il Mediterraneo, i paesi del maghreb, i Balcani.
E tuttavia è vera anche un’altra cosa: come fosse appunto un discrimine, un momento di separazione tra il prima e il dopo, l’audacia formale di Zona ha rappresentato una sorta di un unicum per Énard. Quel romanzo, pensato come una singola frase di cinquecento pagine priva di maiuscole e punti di sospensione, diviso in 24 capitoli quanti sono le ore di una giornata ma anche i canti dell’Iliade, si piazza nel suo percorso di crescita alla maniera di un Giano bifronte, da una parte volto allo scrittore che Énard sta diventando e dall’altra allo scrivente che Énard era all’esordio o perlomeno riteneva di essere: «Certamente la pubblicazione è una tappa importante, ma c’è una differenza netta tra l’essere uno scrivente – uno che scrive – e uno scrittore. Mentre scrivevo il mio primo libro non ero uno scrittore, anche se aspiravo a esserlo». In quel primo libro, che giunge da noi soltanto ora con il titolo La perfezione del tiro, nella traduzione della sempre impeccabile Yasmina Mélaouah (edizioni e/o, pp. 183, euro 16,00), lo scrittore che verrà è in buona parte chiaramente annunciato. Il tema che lo domina, la guerra come la conosciamo oggi – la guerra ibrida e pulviscolare così diversa e lontana da quelle combattute un tempo tra Stati che si riconoscevano reciprocamente – è lo stesso di Zona. Pure la narrazione in prima persona sembra un parente stretto dei successivi monologhi. Appena si entra nel vivo del romanzo, però, emergono anche differenze sostanziali.
Il teatro di guerra descritto nella Perfezione del tiro è un luogo indeterminato. Il Libano a cui Énard fa riferimento è un paese senza nome e per certi versi quasi senza storia. La città sui cui tetti si apposta il narratore, un giovane cecchino, è semplicemente «la città», e così è per tutto il resto: piazze e vie sono soltanto piazze e vie, il mare resta soltanto il mare e i villaggi attorno soltanto villaggi. Nulla ci è dato sapere neppure delle ragioni del conflitto. La guerra ci viene presentata con dovizia di dettagli nella sue dinamiche quotidiane, ma sui suoi perché, sulle motivazioni delle fazioni contrapposte è il buio totale. «Mi sembra di sparare da sempre, e invece sono appena tre anni» dice di sé il cecchino.
La guerra non è eterna ma per quest’uomo è come se lo fosse. Benché sia un fatto relativamente nuovo, gli è entrata a tal punto dentro da considerarla ormai una condizione naturale. Quanto alla sua fine, non è un’eventualità che il cecchino prende in considerazione. Per lui, solo la tregua pare avere un senso. Non esiste pace ma soltanto qualche pausa, l’interruzione temporanea dei combattimenti tecnicamente chiamata tregua.
All’inizio del suo racconto, il cecchino spiega di avere soltanto tre amici: «il mio fucile, il mare, Zak, in quest’ordine di importanza». Un ordine non poco significativo, visto che si parte da un oggetto inanimato dispensatore di morte e si arriva a una persona, un compagno di guerra, soltanto dopo essere transitati per qualcosa di più vivo di un fucile ma comunque non umano, il mare, con il quale quest’uomo ha per giunta un rapporto distante. «Passavo ore a guardarlo dal tetto. E dire che non sono un romantico, però mi è sempre piaciuto tanto. Cambia colore, si muove o resta immobile».
Bastano frasi come questa per rendersi conto che abbiamo davanti un personaggio molto diverso dall’agente dei servizi segreti di Zona o dall’orientalista di Bussola, uomini consapevoli, che hanno viaggiato, che conoscono, portati alla digressione. Il cecchino non divaga, è tutto concentrato su di sé e il piccolo mondo che lo circonda e dal quale non si è mai mosso. Lo sguardo fisso e distante che riserva alle vittime nel puntare il fucile è lo stesso con cui cerca di decifrare una vita che non riesce a vivere fino in fondo e che lo inquieta al punto da preferirgli il fronte. È un disadattato che soltanto grazie alla guerra e a uno speciale talento nello sparare ha trovato un posto nel mondo. Considerarlo una figura emblematica di un tipo umano sarebbe probabilmente eccessivo. È soprattutto un’invenzione narrativa, uno di quegli individui estremi tipicamente romanzeschi, tipicamente francesi anche, in cui lo «scrivente» condensa l’aspirazione di esprimere le proprie ambizioni letterarie, prima ancora che un male di vivere.
Sotto questo aspetto, la voce del cecchino ancorata al dettaglio, quasi autistica, ricorda un po’ quello dello Straniero di Camus, un tono assente nell’Énard della maturità. Nondimeno, seppure viziato da qualche cliché di matrice novecentesca, La perfezione del tiro è un romanzo di classe notevole, perfino impeccabile nel modo in cui alla macchina cieca e inesausta della guerra contrappone un bisogno di normalità.
Regolarità di un pazzo
Il cecchino va e torna dal fronte con una regolarità da impiegato. Ha una madre pazza e quando si decide a trovare una persona che la accudisca mentre lui è sui tetti a uccidere, finisce assume una quindicenne che incrina profondamente la freddezza che si è imposto in quanto tiratore scelto. Dice di apprezzarla perché «non sembrava avere emozioni, era come me, forte e inflessibile» ma o mente a se stesso o non sa cosa ha davvero nel cuore, tanto da far quasi tenerezza nonostante la sua spietatezza bambinesca, la sua incapacità di amare e di vivere senza una guerra.