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Circe, 2020 (da Il cielo di Singapore di Sharlene Teo)

Testata: Le connessioni
Data: 10 settembre 2018
URL: https://nontemerenatasha.wordpress.com/2018/09/10/circe-2020-da-il-cielo-di-singapore-di-sharlene-teo/

Ho smesso molto tempo fa di credere che sia possibile far accadere le cose, positive o negative che siano. Ma ora, mezza addormentata, sembra ovvio che Szu compaia stanotte, perché ho investito tantissime energie pensando a lei. La sensazione di avere qualcuno vicino non è una mia scelta.

Szu indossa l’uniforme della scuola secondaria. Le scarpe bianche e consumate sono unica cosa che cattura il raggio di luna che filtra dalla veneziana della camera. Braccia incrociate. È magra e spigolosa proprio come la ricordo. Quando distinguo la sua sagoma, i lineamenti un po’ confusi, non grido. Perché dovrebbe spaventarmi? Non è mai stata in grado di intimorire nessuno.

“Come va, Circe?” chiede, e non sembrano né ostile né triste. La sua voce è così concreta e familiare da togliermi il fiato. Il tono è un po’ strano, sembra un doppiaggio americano sovrapposto a un cartone giapponese, leggermente fuori sincrono.

La mia lingua si stacca dal fondo della bocca.

“Ma che cazzo succede?” esclamo. E in un certo senso sono sincera. Che cosa mi succede ultimamente? Risposta: non faccio che chiedermi cosa cazzo sta succedendo. Non so se le mie labbra si siano mosse o se abbia pronunciato le parole solo nella mente.

Ho l’impulsivo di afferrare i polsi ossuti di Szu, voglio prenderla per le spalle, con la libertà altezzosa di una volta, e scuoterla. Chiederle cos’è andato storto, in generale e nello specifico.

Internet può rivelarmi in una frazione di secondo dov’è davvero la mia vecchia amica, ma farlo significherebbe riconoscere un gioco a cui non voglio partecipare. Non voglio saperlo, perché sapere dov’è e cosa fa inviterebbe passato a tornare come sintomo del presente rovinato. La nostra storia è finita. Non mi interessa e non voglio ascoltarla. Appartiene al passato.

Ai piedi del letto Szu sbiadisce e guizza, distende le braccia. Tra poco le note metallica della sveglia mi risuoneranno nelle orecchie, fuori uccelli gracchieranno i loro ritornelli e comincerá un’altra giornata di lavoro, l’ennesima giornata di lavoro.

“Bel modo di salutarmi” dice Szu, che adesso ha la mia voce. Si inumidisce le labbra. “Soprattutto dopo quello che mi hai fatto”.

Lascia che le parole cadano nella stanza, come foglie scrollate da un albero. Mi si annoda lo stomaco. Non riesco a muovermi, nemmeno per sussultare. Lei apre la bocca per aggiungere qualcosa.

“Vai via” dico, ma mi esce solo un gemito e i confini della distanza diventano sfocati.

Mentre scivolo in un sonno profondo, penso che non voglio sapere nulla di Szu, non voglio vederla mai più. Se dovessi incontrarla correrò nella direzione opposta. Se i piedi non dovessero collaborare, li obbligherò. Non voglio sapere se – come me a trentatré anni – il tempo l’ha già logorata o se ha una pelle luminosa; se ha messo su peso, se è più in salute; se si è sistemata il viso si è tagliata i capelli corti, facendolo risaltare; se il suo corpo ha una cicatrice dovuta a un parto cesareo oppure ossa rotte, se vive in questo Paese o in un altro continente. O la cosa più triste, quella che temo di più: non voglio scoprire che è morta da chissà quanto tempo e di essere stata troppo presa dalla mia vita per avere anche il minimo sospetto.

da Il cielo di Singapore (titolo originale: Ponti) di Sharlene Teo, Edizioni E/O, traduzione di Aurelia Di Meo