Anticipiamo in queste pagine, per gentile concessione delle edizioni e/o, uno stralcio tratto dal romanzo La perfezione del tiro (pagg. 184, euro 16) di Mathias Enard che arriverà nelle librerie il 29 agosto. Enard, classe 1972, ha studiato storia dell`arte all`Ecole du Louvre e traduce e insegna arabo e persiano. Tra i suoi libri ricordiamo Zona (Rizzoli) e Bussola (e/o) con cui ha vinto il premio Goncourt e il Von Rezzori.
La perfezione del tiro è stato il suo primo romanzo e racconta di un cecchino travolto nel gorgo di una guerra senza speranza.
Fu una settimana così lunga e sfibrante, quella, che non ebbi neanche il tempo di pensare a Myrna. Contrariamente a quel che credevamo, ci fu un tentativo di sfondamento del nostro fronte centrale e ci siamo difesi come forsennati; hanno tentato una grossa diversione per alleggerire i loro combattenti sulle colline sperando che fossimo obbligati a richiamare delle truppe di rinforzo. Fatica sprecata, la loro, abbiamo resistito da soli, le nostre difese erano efficacissime, però è stata dura. La giornata peggiore è stata giovedì. Ci hanno bombardato per tutta la mattina a colpi di mortaio e prevedevamo che si mettesse male. Eravamo quasi privi di artiglieria, solo qualche Rpg, perciò aspettavamo tranquillamente che arrivassero. Ero alla mia solita feritoia, troppo vicino alle loro linee per prendermi una granata; coprivo una mitragliatrice che di sotto controllava un vicolo. Sapevamo che loro stavano preparandosi proprio lì, in mezzo alle case, e non potevamo fare niente. È passato il comandante e ci ha detto di tenerci pronti, che probabilmente mancava poco. Il loro piano di solito è quello di prendere i primi due palazzi, perché se riescono a portar su in cima una mitragliatrice e un mortaio poi cercano di coprire le truppe in modo che possano avanzare e attraversare la strada, e così di seguito. Invece quel giorno, siccome sapevano di essere più numerosi di noi, hanno provato a prenderci alle spalle lanciando due offensive in simultanea, una verso il mare e l'altra a est. Era un buon piano, il loro, e siamo stati fortunati a non finire accerchiati. Piovevano ancora le granate quando abbiamo sentito che c'era uno scontro verso il mare, il rat-ta-ta-ta-ta-ta regolare della nostra mitragliatrice, delle esplosioni e delle raffiche. Ho dato un'occhiata nel binocolo, ma a parte il fumo non si vedeva niente. Lo scontro si faceva serio e ci domandavamo se era il caso di andare di rinforzo, il comandante però ci aveva detto di non muoverci a nessun costo.
Il primo che ho visto avanzava nel vicolo rasente i muri, facendo segno ad altri dietro di lui. Andavano da un portone all'altro, saranno stati una ventina. In quel momento ho sentito delle raffiche e delle bombe a mano alla mia destra, un po' indietro, e ho pensato se i compagni non li fermano, finiamo accerchiati. Ho imbracciato il fucile e ho fatto fuori il loro ricognitore con un proiettile in faccia nel momento in cui si allontanava un po' dal muro. Sotto, la mitragliatrice era sempre silenziosa, quegli idioti non si erano accorti di niente. Ho sparato una cartuccia nel muro proprio accanto a loro perché si svegliassero. Quando il proiettile ha colpito il muro si è scatenato il panico, hanno subito aperto il fuoco senza aspettare di capire. Ci hanno dato dentro per un minuto buono, nel vuoto, un vero e proprio fuoco d'artificio di intonaco senza nessun risultato - se non quello di rivelare la posizione della nostra mitragliatrice.
Dietro di me sentivo che il combattimento si intensificava. Dovevano essere almeno una ventina. Da dove fossero arrivati, non avevo idea. Ogni tanto sentivo fischiarmi sopra la testa un proiettile vagante, perciò significava che erano in alto. Ma non potevo attraversare il tetto per andare a vedere, avevo già abbastanza problemi davanti, una cosa per volta. I due idioti continuavano a far fuori tutte le cartucce contro i muri. Mi chiedevo quanto ci avrebbero messo quelli di fronte per piazzare un mortaio in batteria dietro il vicolo e neutralizzare la nostra mitragliatrice e quei due imbecilli. Un quarto d'ora se andava bene. Perciò fra dieci minuti dovevo essermene andato altrimenti rischiavo di beccarmi alla meglio una bomba a mano e alla peggio una granata. Qui non ero più di nessuna utilità, se non forse salvare la mitragliatrice nel caso in cui i due idioti non si fossero resi conto di essere stati scoperti. Ho attraversato il tetto quasi a quattro zampe per vedere cosa succedeva nella via sul retro. A quanto pareva i nostri erano in difficoltà. Controllavano il grande edificio al centro della piazza, attaccati da due lati, e ben presto lo sarebbero stati anche da un terzo se la colonna di fronte a noi avesse oltrepassato il nostro sbarramento. Dal mio tetto avevo una visuale dall'alto degli assalitori sulla sinistra. Ho imbracciato il fucile e ne ho fatto fuori uno, sulla terrazza di una casa, un proiettile nella pancia, niente di che, è finito lungo disteso e ha preso a contorcersi come un verme. Ho pensato che eravamo quasi in trappola, a meno che non scendessimo e non ci arrischiassimo anche noi nei vicoli. Attraversare la via principale per raggiungere i nostri era impossibile senza farsi ammazzare; salire verso est era un'idiozia totale, se non per abbandonare il combattimento (oltre tutto lassù c'erano le mine dei campi abbandonati) e anche verso il mare si combatteva. Quindi dovevamo fare un ripiegamento offensivo, portare la mitragliatrice sull'altro lato e provare a venire un po' in aiuto ai compagni. Quando prendo una decisione che so essere quella giusta, poi mi piace agire in fretta. Sono sceso di corsa fino alla mitragliatrice, era rimasto un solo servente, il secondo era stato colpito alla testa da una scheggia o da un pezzo di cemento ed era per terra.
«Andiamo» ho detto, «bisogna fare in fretta, disimpegniamo un po' l'altro lato».
L'ho aiutato a trasportare la mitragliatrice, il ferito l'abbiamo lasciato lì perché per lui non potevamo fare niente, siamo scesi di cinque o sei piani e ci siamo messi in una stanza dove c'era un enorme squarcio fatto da una granata e una vista a centottanta gradi sui tipi sotto, sui loro tetti. Probabilmente pensavano che i compagni avessero già preso il nostro palazzo, perché da questo lato erano scoperti. Abbiamo piazzato la mitragliatrice e cominciato a sparare a tappeto sui tetti per costringerli a mettersi al riparo. Nel mentre, ne abbiamo ammazzati due, inchiodati al cemento dalla 12.7. Non si sono resi conto di cosa succedeva. Purtroppo non potevamo rimanere lì a lungo, perché di sicuro fra poco il palazzo sarebbe stato attaccato, era il casino più totale. Quegli altri dovevano chiedersi quanti fossimo lì dentro. Cominciavo a sudare, ero mezzo sordo per via della mitragliatrice, abbiamo sentito una grossa esplosione più su, il mortaio dei tipi di fronte, o un Rpg, e ci è crollato addosso tutto l'intonaco. Dovevamo filarcela, insomma, ma con la mitragliatrice non saremmo andati granché veloci. Abbiamo preso delle scale secondarie e siamo scesi di corsa. Il pivellino che era con me era uno della riserva, era la sua prima battaglia, tremava e inciampava in continuazione. Non la smetteva di chiedere «e adesso cosa facciamo, eh, cosa facciamo?» e non potevo rispondergli che cazzo ne so, perché sarebbe andato ancora più nel panico. Non so cos'avrei dato perché in quel momento ci fosse con me Zak, che era chissà dove dietro di noi con la sua squadra. Intanto che scendevo le scale al buio ne approfittavo per riflettere, facendo lunghi respiri; avevo un orecchio che mi fischiava e il sudore sugli occhi e pensavo che quell'umiliazione gliel'avrei fatta pagare cara, ai bastardi dell'altra parte. Arrivando al terzo o al quarto piano abbiamo rallentato per metterci in ascolto. Non si sentiva né il mortaio né la mitragliatrice né niente ed era ancora più inquietante perché magari erano proprio lì dietro la porta. Abbiamo continuato pian piano a scendere finché non siamo arrivati nel locale caldaia, nello scantinato. Mi sono fermato per riflettere. Ho nascosto la mitragliatrice con le munizioni dietro un condotto del riscaldamento, un ottimo nascondiglio. Dovevamo uscire dal garage, che dava sul lato, magari lì non c'era nessuno. Siamo entrati, c'era una puzza tremenda, dovevano esserci dei cadaveri da qualche parte. Ho sentito il novellino che si vomitava addosso, dovevamo attraversare tutto il garage fino alla porta. L'ho spinto. Dài, cammina. Tirava su col naso come un moccioso. Nel buio urtavamo contro macchine abbandonate e cose invisibili, molli e schifose. È spazzatura, ho mentito per tranquillizzare il novellino. Dovevamo orientarci, per fortuna sapevo dove si trovava l'uscita rispetto alle scale. Il suolo sotto i nostri piedi ha cominciato a salire, abbiamo seguito la rampa, sempre al buio. Verso la porta c'era un po' di luce, perché era stata perforata dalle schegge. Si sentivano i combattimenti in lontananza, sembravano terribili. Ma dietro la porta niente. A destra, in una specie di bugigattolo, c'era un'uscita pedonale, era chiusa a chiave. Il novellino ha perso la pazienza, ha fatto saltare la serratura con una raffica, alcuni proiettili sono rimbalzati contro il muro e se n'è beccato uno nella gamba. Mi dava così sui nervi, quello stronzetto, che niente niente aveva segnalato la nostra presenza, aveva la faccia coperta di lacrime, la mimetica coperta di vomito, mi guardava senza capire cosa gli succedeva, per terra, con la mano sul polpaccio che perdeva una marea di sangue. Le orecchie avevano ripreso a fischiarmi per via del rumore della sua raffica dentro il bugigattolo, ho sollevato un po' il fucile verso la sua faccia e ho premuto il grilletto senza più guardarlo. La cartuccia ha riecheggiato a lungo. Ho aspettato qualche secondo prima di gettare uno sguardo fuori. Era la via laterale. Nessuno. Ero stanco morto, distrutto. Mi sono chiesto cosa avrebbe fatto Zak in un momento del genere. Andare a sinistra voleva dire andare verso di loro, e a destra uguale. Di fronte c'era la porta di una casa, e allora ho pensato che ero un uomo di altitudine, un uomo dei tetti, e che lassù avrei potuto riposarmi un po' e pensare a una tattica per tirarmi fuori da quella trappola. In due balzi ho attraversato la strada e mi sono infilato nella casa.
Mathias Enard