Sulla copertina è scritto: “Leggere questo romanzo è come scavare nella mente di un’amica intelligente e infuriata”. E una pensa subito – complice la distrazione narcisistica che è la peste del nostro tempo – che si tratti d'un libro che la risarcirà, con humor nero e trasparenza populista (nel senso migliore) dalle ore e dai giorni perduti a prestar soccorso ad amiche che s’autoinfliggono problemi di cuore, s’immolano ad amori non corrisposti e guai a dir loro la tremenda, unica, sola verità: “Non gli piaci abbastanza”. E invece no. L’amica è infuriata con chi legge. E’ lo sguardo che questo libro costringe chi lo legge, specie se femmina (e specie se femmina lo si legge, bisogna ammetterlo), a rivolgersi. Siamo noi, siamo in tante, siamo quasi tutte: ragazze affette dalla letale combine di complesso di Didone, quella malata proporzionalità diretta tra la nostra indipendenza di fatto e l’asservimento sentimentale, e incapacità di accettare il dato di realtà, quando il dato di realtà è che siamo innamorate di un tizio che non ci corrisponde. Siamo tutte Ester, che di questa storia è la protagonista tragicomica (più tragica che comica, ma solo perché il libro è ambientato in Svezia: fosse stato ambientato a Londra, sarebbe stato un Kinsella purissimo, senza spleen e dal passo irresistibile). Ester s’infila con pervicacia in una logorante relazione con Olof, attore teatrale più grande di lei, irrisolto, sposato (molto sposato), noioso, ignavo, scostumato ma piuttosto onesto: non fa che ripeterle che non la ama e non vuole, quindi, lasciare sua moglie per lei (lascia persino intendere che non lo farebbe neppure se fosse innamorato di lei).
Le dice quando può chiamarlo e quando no, quando possono fare sesso e quando no, quando deve sparire e quando no; la burla quando lei gli dichiara il suo amore; le consiglia di passare più tempo con i suoi amici. Ester, che è un'intellettuale di livello (è laureata in fisica e in filosofia, traduce, scrive per il teatro e per alcune prestigiose riviste scientifiche), reagisce incorniciando le briciole, traducendo ogni no di lui in un grande sì, accordandogli costantemente la scusa della paura d'amare, travisando ogni segnale, stabilendo che lui la vuole ma non ha il coraggio di andarsela a prendere e che, quindi, la sua missione è aspettarlo. E così, anno dopo anno, registra ogni minuscolo passo come un grande avanzamento nella staffetta che la porterà al podio: “Questo Capodanno mi ha chiamata, l’anno scorso aveva mandato solo un sms”, dice alle sue amiche, prima sfibrate e poi decimate (finisce col parlare solo con quelle che le danno ragione e s’illudono, con lei, che lui sarà presto suo). Anni di “ovvia quarantena” che si concludono nel modo peggiore possibile (né vincitori né vinti, si esce sconfitti a metà), ma non è questo il punto di Andersson. Il punto è che se siamo circondate ancora da storie come questa, se ci scivoliamo ancora così tanto, è perché sono funzionali all’abiura di ogni responsabilità personale, la stessa che è stata del tutto estromessa, dall’azione femminile, da un certo movimento con l’hashtag nel nome.