Su-pèr-sti-te – Latino supèrstitem derivato da superstàre, chi soprasta, chi sta sopra (supra), ma anche ciò che rimane, e infine anche colui che rimane. Come aggettivo lo trovate sempre riferito a chi sia rimasto in vita dopo la morte altrui, dopo una calamità naturale o un disastroso incidente. In realtà, se ci pensiamo bene, ognuno di noi è un superstite, perché le calamità naturali, i disastrosi incidenti, la perdita di qualcuno, possono avvenire anche in modi meno eclatanti, ma non per questo meno violenti: perdere un amico o un parente, il lavoro, un’opportunità, la rubrica dei contatti del cellulare… Tantissimi i livelli che ci vedono “superstiti”, ma rimane indubbia la natura tremenda del suo significato più profondo, colui che sopravvive agli altri, a quelli che ama. Governi ci mostra un uomo, o il simulacro che ne rimane (sebbene il protagonista non se ne renda conto se non alla fine) che vaga da superstite nella vita dopo che una tragedia – il massacro dei genitori, del fratello e della sorella da parte di rapinatori – lo ha svuotato di sé.
Un uomo. Non ne avrete mai le generalità, così come non ne avrete di nessuno di coloro che lo circondano – c’è una “moglie”, una “figlia”, il “giornalista”, lo “slavo”, ognuno di loro citato per il ruolo che ricopre come se il protagonista fosse stato catapultato in una tragedia teatrale. L’uomo subisce lo shock, ma non ne esce mai. Dalla sua casa si trasferisce in quella teatro del massacro dove non attua nessun cambiamento: non tappa i buchi delle pallottole, non ripulisce il parquet macchiato d’acqua e sangue che anzi usa per costruire un crocefisso a cui attacca un cristo di cartapesta dipinto con vernice bronzea. È come se tentasse di costruire un recetto in cui trovare pace, ma che pace non gli dà.
Lo capiscono i suoi famigliari che lui manda in America, in Arkansas promettendo falsamente che li avrebbe raggiunti di lì a poco, giusto vent’anni. Imposta tutta la sua vita su una falsa routine – l’allevamento di pulcini in batteria, lavoro generazionale di padre in figlio – cercando di esorcizzare l’ira e il desiderio di vendetta, ammorbato dagli incubi.
Questa solitudine voluta, cercata e bramata, viene attraversata da un altro essere umano, anch’egli solitario: il giornalista non morboso (a differenza di quello che voleva avere i particolari personali). Una sorta di nocchiero per naufraghi, un uomo che lo fa risentire umano, soprattutto quando lo mette a parte del suo dolore. Così, due superstiti, viaggiano insieme nella notte per arrivare in Serbia e vedere in faccia il colpevole. E così sembra continuare, all’infinito, questa esistenza sospesa da uomo vuoto che tenta di ritrovare i legami con la famiglia ormai inseritasi nel bigotto e retrogrado Arkansas, da cui fugge ancora per tornare a quello che sa, a quello che conosce, con cui convive e di cui si ricopre come fosse una coperta di Linus: il suo dolore.
Ecco. Tutto questo è raccontato da Governi con una scrittura concentrata e intensa, sottile come la punta di una matita ben temperata che traccia linee pulite, arricchendo il disegno di dettagli senza che nessuno di essi soverchi quello a fianco, ma concorrendo a creare una visione d’insieme impeccabile, lucida. L’adusta essenzialità dell’incedere giornalistico quando questo è mera cronaca, racconto, senza scadimenti di finta retorica, senza esternazioni. Così il dolore arriva dalle pagine al vostro cuore e sebbene forte, non lo costringe, ma apre alla speranza che anche nel racconto arriva alla fine. Salvifica. Se una delle guance vi sembrerà più umida dell’altra, va bene così.