Il Superstite non è un noir d’azione, ma di riflessione. È la lucida cronaca di un’ossessione raccontata nei minimi dettagli. La storia di un uomo qualunque e senza nome che si trova a fare i conti il peggiore degli incubi. Costretto a confrontarsi con un evento terribile (la morte violenta dei genitori, del fratello e della sorella) che gli cade addosso senza preavviso con la violenza distruttiva di un terremoto. È il racconto di un uomo, di un sopravvissuto, devastato dal dolore che non riesce ad accettarlo e che si annulla in una vita costruita di giorni irrimediabilmente uguali. Una rigida routine che si trascina stancamente e che ha come fine ultimo non la costruzione di qualcosa, ma la sottrazione. Di tutto ciò che risulta superfluo e non legato ai bisogni primari. È il resoconto dettagliato di come sia difficile (se non impossibile) elaborare il lutto quando qualsiasi frase, qualsiasi azione o sentimento appare privo di significato. Quando non ci sono motivazioni plausibili a quanto si è costretti a vivere e sopportare. Perché quello che il superstite vorrebbe trovare non è la vendetta, ma semplicemente la rassegnazione. Non gli interessa nemmeno più di tanto capire, vorrebbe solo riprendere in mano la sua vita. Decidere il proprio destino e non subirlo.
La prosa di Governi non fa sconti. È tagliente, senza indulgenza, quasi geometrica nella sua accurata semplicità. Ma non è solo questione di stile, perché probabilmente una storia come quella narrata nel Superstite non poteva essere raccontata in modo diverso.