Ci sono almeno due buoni motivi per cui Michel Bussi risulta l'autore francese di gialli più venduto Oltralpe. E riscuote un certo successo anche da noi, tanto che, appena uscito il suo Il quaderno rosso (trad. di Alberto Bracci Testasecca, Edizioni e/o pagg. 448, euro 16.50), è finito subito in classifica. Il primo è che non è un autore seriale. A farla da padrone nei suoi polar sono i temi e i luoghi. E quindi i profumi, i colori, le facce, ogni volta diversi e ogni volta memorabili. La vita di Leyli Maal - immigrata del Mali ben inserita nella periferia marsigliese, con tre figli, una collezione di civette, indispensabili occhiali scuri e tante scatole da tè - sconvolta da due omicidi, in cui pare coinvolta la figlia maggiore, Bamby - 24 anni, corpo da principessa africana e tesi di dottorato in antropologia sui flussi migratori - è unica nel suo genere. È Bussi a spiegarci perché: «Penso continuamente ai miei lettori. Mai per compiacerli. Per sorprenderli, invece. Per sedurli. Si scrive per essere letti: vorrei vedere quale scrittore ha il coraggio di dire il contrario». Ecco perché le indagini sul racket dell'immigrazione clandestina, da cui tutto si dipana, sono condotte dal commissario Petar Velika, fuggito dalla Iugoslavia di Tito. E da un giovane supertecnologico tenente Flores, «Gentile, educato, rapido, erudito». I due sono una coppia sorprendente, mai vista. E funzionano.
Il secondo valido motivo è legato a una buona dose di anticonformismo che raramente si riscontra negli autori di genere. Bussi affronta attraverso la fiction l'attualità senza mai risultare retorico e rovinare così al lettore il piacere di godersi la tensione della pagina. Lo confessa lui stesso: «Parto da teorie solide e da un impianto ben documentato, ma nulla di ciò che scrivo a proposito del crimine in sé viene inquinato da visioni umanistiche o deve risultare troppo realista». Premessa necessaria, visto che Il quaderno rosso ha come protagonisti i migranti e affronta un tema chiave nell'attualità europea e francese in primo luogo. Facile pensare che si tratti di un camuffamento noir sotto cui ammassare tonnellate di pensiero radical chic: «Siamo troppo duri coi migranti e se il mio libro suscitasse una reazione a questo, sarebbe fantastico. Ma sono un professore di geografia e dunque quello che volevo dire è molto più macro», racconta. «Il mondo è una vetrina, grazie alla rete e alla comunicazione. Ma poi ha barriere nazionali. Le due cose sono inconciliabili: mi interessava questo paradosso». Esplorato nel romanzo in modo, appunto, originale: «Gli occidentali credono che, se non si barricano, tutta l'Africa sbarcherà in Occidente. Che stupida paura! La stragrande maggioranza della gente vuole rimanere dov'è». A parlare è il personaggio di Savorgnan, un clandestino del Benin. Che continua: «A differenza di quello che credono tutti vedendo per strada i clandestini miseramente vestiti, a partire non sono quelli che non hanno niente da perdere, bensì i campioni scelti dalle famiglie».
Bussi sostiene che il suo modello ispiratore è il senso dell'intrigo di Agatha Christie. Sommato a un inattaccabile metodo per scegliere chi viene ucciso, nei suoi plot: «Chi muore influenza i sentimenti e il carattere di quelli che gli sopravviveranno, quindi è sempre una questione di equilibrio: una vittima sacrificale che permette agli altri di rivelarsi o di vivere meglio. È il principio della tragedia: uno scambio di consapevolezza tra chi se ne va e chi rimane».