Massimiliano Governi ha lo sguardo asciutto e intenso di chi osserva la vita con un'attenzione così forte da trasformarsi quasi in sofferenza: e i suoi romanzi, brevi per la concentrazione massima delle parole, sono come piccoli altari su cui si celebra la violenza scandalosa della vita. Hanno qualcosa di archetipico, le storie raccontate da Governi: sono assolutamente calate nella nostra contemporaneità, ma rimandano alla potenza tragica dei miti. "Il superstite" racconta una vicenda che sembra estratta dalla cronaca più nera: una famiglia intera viene sterminata in casa da due balordi, due nomadi slavi che volevano rubare e hanno ucciso. Padre, madre e due figli sono stati cancellati in un minuto dalla vita. Ma un altro figlio, giovane già sposato e padre di una bambina, si è salvato da quel massacro. E come ogni superstite, rimane per sempre agganciato a quella tragedia, la sua vita si lega inesorabilmente a quella dell'assassino. Sono come due lembi di una ferita atroce che il tempo cuce e scuce, avvicina e allontana. La faccia scura della luna si sovrappone a quella luminosa, e tutto si confonde, il bene e il male si osservano e si intrecciano misteriosamente. Il superstite arriva fino in Serbia per seguire il processo al mostro che gli ha tolto tutto, intuisce che sulla propria vita grava ancora la minaccia, che il male e la follia vogliono penetrare ancora, che non c'è fine alla paura. La moglie decide di partire per l'America insieme alla figlia: il superstite li raggiungerà quando tutto sarà finito. Vent'anni passeranno, vent'anni vissuti con quella spada di Damocle sulla testa, nella testa. Forse l'assassino è morto, ma non è certo. Forse la tenebra si è dissipata, ma l'ombra ormai abita nei pensieri del superstite. È un libro che in qualche modo rimanda al capolavoro di Truman Capote, "A sangue freddo", ma anche alle tragedie greche: il fato domina l'esistenza degli uomini, ma alla fine qualcosa si chiarisce, la lunga strada di pietre porta dove la vita trova un senso e sa persino perdonarsi.