Riesce ancora a ridere nella sua casa di Istanbul, Sanem Altan, 48 anni, giornalista e figlia dello scrittore turco Ahmet condannato all’ergastolo il 16 febbraio scorso insieme al fratello Mehmet per complicità nel fallito golpe del 15 luglio 2016. «È mio padre che mi infonde forza. Sono andata a trovarlo dopo la sentenza e mi ha detto: «Siamo diventati i detenuti più famosi del mondo, l’illegalità del Paese è davanti agli occhi di tutti”. L’ho trovato meraviglioso». Camicetta nera, jeans, neanche un filo di trucco, gli occhi sorridenti che ogni tanto si annuvolano, a Sanem non piace concedere interviste, specialmente alla stampa straniera: «Mi chiamano tutti, vi capisco, perché anche io faccio questo lavoro ma è difficile per me parlare di questa storia».
Lo scorso 28 febbraio, ad Ahmet Altan, 67 anni, autore tra l’altro di «Scrittore e Assassino» e «Endgame», è stata inflitta una nuova condanna a cinque anni e 11 mesi di carcere per «offese» al presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
Una decisione, quella del Tribunale, che suona quasi beffarda vista la precedente condanna.
«Ergastolo aggravato significa che mio padre è condannato a morire in prigione. Cinque anni in più o in meno non cambiano la sostanza. I fatti dicono che è stato condannato senza una prova. I giudici si sono basati su un filmato di un programma televisivo e su un articolo pubblicato su Taraf (il giornale fondato e diretto da Ahmet Altan n.d.r.) sei anni fa. È una storia kafkiana. Questa è stata una decisione politica e personale. C’è qualcuno che la mattina si sveglia e dice: Ahmet Altan è il mio nemico. La sentenza dimostra che in questo Paese non c’è più libertà».
Lei ha modo di vedere suo padre anche se raramente. Com’è il suo umore?
«Lui sta bene, anzi mi dà coraggio. Continua a scrivere e mi fa ridere. Trova ancora il modo di essere divertente. Finora lo potevo vedere per un’ora una volta al mese ma la sentenza ha inasprito le misure e ha ridotto le visite a una ogni due mesi. Per fortuna gli hanno concesso di incontrarsi con mio zio. Io so una cosa: non saranno i muri di una prigione a fermare mio padre».
Sì aspettava una sentenza così dura?
«Purtroppo sì, quello che non mi aspettavo è che condannassero tutti gli imputati. Mio padre e suo fratello Mehmet sono degli oppositori molto noti, penso che incutano timore, di qui la condanna. Ma non capisco perché mettere in prigione gli altri. Vengono chiamati il braccio mediatico di Feto (come il governo turco chiama l’organizzazione che fa capo a Fethullah Gülen n.d.r.) ma non hanno nulla in comune tra loro, non si conoscono nemmeno».
Cosa dimostra questa sentenza?
«È come se avessimo passato il punto di non ritorno. Non c’è mai stata così poca giustizia. Penso che la Turchia non possa permetterselo e che debba voltare pagina. La violazione della decisione della Corte Costituzionale che aveva chiesto il rilascio di mio padre è la prova che non c’è più uno Stato. Ma questa situazione riguarda il mondo intero. Basti guardare alla liberazione di Deniz Yücel (il giornalista turco-tedesco tornato in Germania dopo mesi di detenzione preventiva n.d..r), avvenuta, non a caso proprio nello stesso giorno della sentenza di condanna contro mio padre e gli altri. È la dimostrazione che Stati Uniti e Ue contano. Se vogliono».
Vuole dire che l’Europa, se vuole, può ottenere giustizia?
«Esattamente. Possiamo dire che ormai la libertà dei giornalisti è diventata una questione di trattativa politica. Ma non ci arrendiamo. Non è questa la fine. Lotteremo finché c’è possibilità di appello. La nostra ultima carta è la Corte Europea per i Diritti Umani. Anche se non sono sicura che la Turchia ne rispetterà la decisione».
Cosa è accaduto secondo lei il 15 luglio del 2016?
«Io penso che ci sia stato un colpo di Stato controllato dal governo come sostengono in tanti».
Quali sono i vostri rapporti con Fethullah Gülen?
«Nessuno, è una cosa totalmente inventata. Basta guardare al nostro standard di vita per capire che non siamo in comunicazione con lui. Gülen è stata la scusa per chiudere tanti giornali e tv. La verità è che non vogliono essere criticati. Lo dimostra il caso di Afrin (il luogo in Siria dove l’esercito turco ha lanciato un’operazione contro i guerriglieri curdo siriani n.d..r)».
In che senso?
«Nessuno può parlare di Afrin oggi in Turchia. Se dici “io vorrei la pace” pensano che tu sia un traditore».