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«Arendt & Heidegger, doppia love story»

Autore: Luciano Giannini
Testata: Il Mattino di Napoli
Data: 28 febbraio 2018

È una signora bruna, settantenne, gentile, perbene, affabile. Ha occhi scuri e vivi, che non tacciono una sicurezza mai, comunque, ostentata. Il suo nome, Savion Liebrecht, tradisce una unione che la Storia degli anni ’30 e ’40 ha trasformato in contraddizione: è tedesca ed è ebrea e nasconde, perciò, il dolore di una generazione che sente di appartenere alla stessa profonda cultura che l’ha rifiutata fino a concepirne l’Olocausto. La scrittrice israeliana è ospite dello Stabile Teatro Nazionale di Napoli e del Mercadante, dove debutterà stasera, in prima nazionale, la sua drammaturgia più nota, «La banalità dell’amore». Lo spettacolo, prodotto dallo Stabile, vede in scena diretti da Piero Maccarinelli Anita Bartolucci, Claudio Di Palma, Giacinto Palmarini e Federica Sandrini; ed evoca la liaison tra uno dei maggiori pensatori del Novecento, Martin Heidegger, e un’altra ebrea tedesca, Hannah Arendt, sua allieva all’università di Friburgo: il titolo rimanda a quello della sua opera più famosa, «La banalità del male».

La Savion, ricorda che quel libro rievocava laicamente il processo al nazista Heichman, acciuffato dal Mossad in Argentina, e fu bandito da Israele fino al 1972, «perché non era tenero con la sua classe dirigente e descriveva Tel Aviv alla stregua di un bazar turco. Nel 1963 il Paese non era ancora pronto ad accettare quell’immagine di sé». La stessa sorte è toccata alla «Banalità dell’amore», che debuttò a Bonn: «Ci sono voluti dieci anni perché fosse rappresentata in Israele, anche se, poi, il suo successo è stato indiscusso».

La Arendt e Heidegger si amarono per quattro anni, dal 1924 al 1928: «Lui, sposato, padre di due figli, docente di filosofia e poi rettore a Friburgo, era molto più anziano. Nazionalsocialista convinto, arrivò al punto da impedire al proprio mentore, Edmund Husserl, di accedere alla biblioteca dell’ateneo».

Savion ha scritto la piéce traendo spunto soprattutto dalla corrispondenza tra gli amanti: «L’opera maggiore di Heidegger, “Essere e tempo”, che rifondò l’ontologia, è intrisa di quella liaison. Nel 1933 Hannah fu arrestata dalla Gestapo, ma riuscì a raggiungere la Francia, dove costruì la propria fama di intellettuale, e approdò poi negli Stati Uniti. Nello stesso anno Heidegger divenne rettore e membro attivo del partito nazista. I due si rividero 17 anni dopo. Hannah frequentò anche sua moglie. E fu lei a chiederle di aiutarlo a pubblicare “Essere e tempo” negli Usa».

«È un po’ come se un angelo si innamorasse di un diavolo», dice il direttore dello Stabile Luca De Fusco. E Maccarinelli: «Ma non vediamo Heidegger come il male assoluto, se è vero che aiutò alcuni ebrei a fuggire e, dopo la guerra, pur non rinnegando i principi nazionalsocialisti, si disse convinto che fossero stati i nazisti stessi a tradirli».

Per rendere teatrale la storia, Savion ha immaginato continui salti di spazio e di tempo e due luoghi, reali ma soprattutto interiori: «Il primo spiega Maccarinelli è la baita della Foresta nera, teatro della relazione proibita e impossibile tra la diciottenne Hannah e il suo professore emerito; il secondo è la sua casa americana nel 1975. L’intellettuale ormai affermata riceve la visita di un giovane israeliano, che cela la sua vera identità. La piéce ha diversi colpi di scena che non sveliamo, oltre a una raffinata ironia». In realtà, più che una banale storia di corna - Heidegger, tra l’altro, mai rinnegò la moglie pur vivendo svariate avventure sentimentali - «La banalità dell’amore» è «il confronto tra due grandi pensatori che non incarnano il bene e il male assoluti, ma l’eterno dibattito sulla libertà intellettuale dell’individuo». Ecco perché l’aspetto della laicità è così importante in questa drammaturgia: «L’ebreo discute di tutto senza dar nulla per scontato», precisa De Fusco. E Savion: «La mia pièce parla di due storie d’amore; quella di Hannah per Martin e quella dell’ebreo tedesco per la Germania»; un conflitto e un dibattito interiori senza soluzione, «perché essere ebrei voleva dire rifiutare il proprio essere tedeschi».