Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Essere incomprensibili è il vanto della (cattiva) poesia italiana. Per fortuna c'è Kate Tempest, il fenomeno poetico che scala le classifiche

Testata: Pangea
Data: 15 gennaio 2018
URL: http://www.pangea.news/incomprensibili-vanto-della-cattiva-poesia-italiana-fortuna-ce-kate-tempest-fenomeno-poetico-scala-le-classifiche/

In Italia l’avrebbero linciata. Il sacro tribunale della poesia nazionale l’avrebbe costretta all’abiura, oppure alla condanna al rogo. Nel mondo anglosassone, nessuno vede male un poeta che riesca a vendere e ad avere successo. Qui da noi, non si capisce bene per quale malsana idea di purezza, alcune arti (ciò non vale per la pittura, per es.) debbono auto condannarsi a una vita di nicchia e a non muovere più di qualche euro, altrimenti l’artista in questione rischia l’espulsione dal consesso dei suoi simili. Classiche idiozie all’italiana! Ma per fortuna esiste un altro universo letterario, quello anglofono, in cui Kate Calvert, in arte Kate Tempest, londinese, poco più che trentenne, può dare alle stampe un libro (che è anche un disco) Let Them Eat Chaos, una sorta di poema, e ottenere un successo globale. Anche in Italia, per nostra fortuna, il testo è riuscito ad arrivare nelle librerie, grazie alla E/O Edizioni, con il titolo Che mangino caos, e alla trasposizione del bravo Riccardo Duranti (che tutti ricorderanno per essere stato il massimo traduttore italiano di Raymond Carver). La storia che viene raccontata nei versi della poetessa è molto semplice, ma di ampio respiro. Sette vite di sette persone molto diverse tra loro, nella Londra odierna della crisi, ognuna preda di una strana e ineluttabile insonnia. Tutto avviene alle 4:18 del mattino (in molti vi hanno voluto scorgere un riferimento, o almeno un omaggio, alla Sarah Kane di Psicosi delle 4:48, malgrado la lieve differenza d’orario). In questa terra e in quest’ora così desolata (l’altra associazione è quella con La terra desolata di Eliot), ognuno di loro fa i conti con sé stesso e con i suoi fantasmi. Cosa scopriranno? Che nessun uomo è un’isola, per dirla con John Donne (“a ricordarti che non sei un’isola”, nelle parole della Tempest).

Come non condividere i versi in cui la poetessa critica appunto questa visione imperante, figlia del più becero thatcherismo: “Il mito dell’individuo/ Ci ha lasciati scollegati smarriti/ e in stato pietoso”. O la sacrosanta constatazione, che suona anche come un monito a chi sembra godere infinitamente delle divisioni che il Potere cerca ogni giorno di porre tra di noi: “Credi che io e te siamo così diversi?/ Ti perdi nei dettagli./ Io e te, separati, siamo più facili da limitare”. Ed è struggente il senso generale, il messaggio positivo – non proprio una costante della poesia, bisogna riconoscerlo – che il poema sembra voler comunicare, il richiamo all’empatia: “La tragedia e la sofferenza/ di una persona che non hai mai incontrato/ è presente nei tuoi incubi,/ nell’attrazione che provi verso la disperazione./ Il malessere della cultura/ e il malessere nei nostri cuori/ è un malessere inflitto/ dalla distanza/ che condividiamo”. Il punto di vista quindi, pur essendo in apparenza circostanziato alla capitale inglese (Londra è una fortezza murata,/ è tutta per i ricchi,/ se non ce la fai/ sei fuori./ Sai dov’è la porta) e alle esistenze dei sette personaggi, vuole essere più vasto. La città e le vite descritte rappresentano la sineddoche di tutta la grande realtà globale e ciò è facilmente comprensibile, fin dal principio del testo. In generale, il poema è trascinante. Andrebbe letto ad alta voce, coram populo, come sta scritto in apertura. La poetessa è anche una performer, appartenente al movimento della Spoken Poetry, altrimenti nota come Poetry Slam. Certo, si tratta di un tipo di poesia, come quella americana (si pensi per es. a Carver), che lascerà spaesato il lettore italiano avvezzo a certi vertici di lirismo – francamente il più delle volte patetici e in stridente contrasto con il nostro tempo. Anche la semplicità e la trasparenza del verso sono qualcosa a cui il lettore, qui da noi, non è granché abituato – essere incomprensibili, ecco quello che paga in Italia. Uniche pecche dell’opera sono certe scivolate nel pietismo e alcuni buonismi che l’autrice si sarebbe potuta risparmiare. La giovane età giustifica tali cadute. Ma l’idea che serva espandere il proprio orizzonte amoroso per salvare il nostro povero mondo, nella comprensione laica di una fratellanza universale, non può certo lasciare indifferenti.

Per approfondire le implicazioni stilistiche e tematiche del testo, siamo andati a intervistare Riccardo Duranti, il traduttore italiano della Tempest. Come immaginavamo, quello che fu a suo tempo il traghettatore di Carver verso il pubblico italiano, non ci ha delusi.

Come è venuto a conoscenza di Kate Tempest?

“È stata la E/O Edizioni a farmela conoscere. Mi contattarono l’anno scorso chiedendomi di tradurre un altro suo testo. Poi, però, decisero di far uscire prima Let Them Eat Chaos. In seguito, vedrà la luce anche il precedente. Siccome non frequento più l’Inghilterra come un tempo, ero rimasto all’oscuro del fenomeno. Ed è stato molto interessante scoprire l’esistenza di questa poetessa, che si è formata in un ambiente non proprio immediatamente connesso alla poesia, quello della musica rap. Eppure, ha una grande cultura classica ed è anche originale. Ha quest’energia incredibile che io ho sperimentato in prima istanza leggendo le sue opere, ma ancora di più assistendo di persona a una sua performance. Quando ho avuto modo di incontrarla è stato strano, perché è la tipica ragazza della porta accanto, ma poi sul palcoscenico si trasforma e diventa una forza della natura”.

Quali sono, a suo avviso, i punti di forza della scrittura della Tempest e quelli deboli, se esistono?

“Sinceramente non ho rilevato dei punti deboli nella sua scrittura. Al contrario, mi è parsa molto originale, oltreché agguerrita. Il difetto principale di uno scrittore, dal mio punto di vista, è quello di essere derivativo, di fare cose già fatte, già sentite, di orecchiare e riproporre tendenze in auge. In lei non l’ho riscontrato. Ogni opera che ho letto mi sembra che prenda una strada nuova, inaspettata, esattamente secondo quella che è la mia idea di letteratura. Se un autore mi ricorda un altro, solitamente lo scarto”.

Dal suo punto di vista di esperto di letteratura anglofona, quali sono le maggiori influenze che ha riscontrato nel poema Let Them Eat Chaos?

“Non ho riscontrato influenze, almeno non quelle che uno si aspetta. Si tratta certamente di un poema drammatico che rimanda alla letteratura inglese. Non concordo con chi, per esempio, l’ha ricollegata alla Kane, per quel che concerne la vicinanza d’orario in cui sono ambientate le due opere. Invece, in merito ai riferimenti fatti a La terra desolata di Eliot, posso ipotizzare che rientri nel background dell’autrice, ma mentre il suo è un poema dalla coralità drammatica, in Eliot la coralità è per dir così ieratica. Un nome che mi verrebbe in mente è quello di Robert Browning, nei suoi monologhi, ma quelli erano appunto monologhi. Addirittura, nella Tempest, abbiamo proprio un coro e delle voci individuali a seguire, molto ben distinte ma anche ben amalgamate. In tal senso, si avvicina maggiormente alla tragedia greca. Uno degli aspetti sorprendenti, come dicevo prima, è che lei abbia una cultura classica, cosa che non ci si aspetterebbe in una performer e rapper. L’altro poema che ho letto e tradotto, per esempio, è tutto basato sul mito di Tiresia. Anche questo potrebbe rimandare a Eliot, ma lei lo sviluppa in un modo modernissimo e assolutamente diverso da quello dell’autore statunitense. Quando l’ho incontrata, peraltro, mi ha detto che stava lavorando a una traduzione aggiornata e modernizzata del Filotette di Sofocle. I riferimenti alla classicità, c’è da considerare, paradossalmente, di questi tempi sono una novità”.

Qual è la cifra distintiva della lirica di Kate Tempest?

“È il dare voce a istanze politiche e sociali molto forti, dal punto di vista dei giovani. Nella sua lirica, questi prendono voce e protestano come non accadeva da anni. Denunciano le ingiustizie, il ruolo marginale a cui sono ridotti. Anche in Inghilterra, del resto, è in corso una crisi di lavoro e di prospettive che li travolge, come da noi. La Tempest si fa portavoce di questo disagio, della protesta, e lo coniuga da una parte con la forza presente nei classici, quali quelli greci; dall’altra, con quelle espressioni musicali come il rock e il rap, che però sono più facilmente controllabili dall’establishment. Sappiamo tutti che questi generi nascono come contestatari, ma poi diventano addomesticati, un mondo a parte ben inserito nel sistema. Lei è fuori dai condizionamenti dell’industria discografica. Il suo successo è determinato proprio da questa formula: una preparazione musicale e lirica”.

Quali sono state le maggiori difficoltà nel trasporla in lingua italiana?

“Rispettare la sonorità, la complessità della tessitura musicale che lei introduce nei suoi scritti. La Tempest ha un ritmo ipnotico che è difficile da rendere. Usa molto le rime, la sincope, le ripetizioni. Io, devo confessare, l’ho tradotta prima di sentirla ma, dopo l’esperienza, rifarei tutto da daccapo. C’è una dimensione sonora, di cui ho tenuto conto fino a un certo punto. L’importante, per me, era trasmettere il senso, ma la trama acustica richiederebbe ben altri sforzi traduttivi”.

A suo avviso, nella scrittura della Tempest traspare la sua natura di genere, ovvero il suo essere femminile, oppure la poetessa in questione riesce a superare la sua appartenenza sessuale quando scrive?

“La natura di genere c’è e si sente, ma lei la trascende perché è capace di entrare empaticamente in contatto con l’altro. E poi, gioca molto sullo sfondamento di simili barriere e riesce a intrecciarle nel suo discorso, a mescolare i punti di vista del maschile e del femminile”.

Direi, se non ho compreso male, che la poesia della Tempest è avvicinabile al movimento della Spoken Poetry o Poetry Slam. Vorrei conoscere la sua opinione in merito a queste tendenze all’interno della lirica europea e mondiale.

“Non è niente di nuovo, considerato che l’origine della poesia è fortemente legata alla musica e alla danza, alla performance. Ciclicamente si ripresenta il fenomeno, soprattutto da parte dei giovani, che vorrebbe rafforzare questa componente rispetto a un’idea della poesia più intellettualistica, chiamiamola della poesia di carta. Ma la cosa interessante, come in tutte le tendenze, è che ci sia qualcuno che inizia all’interno di un filone, ma poi lo trascende. E la Tempest mi sembra appunto uno di questi rari casi: sta in quel contesto, ma non riesce a farvisi contenere, perché ha delle ambizioni più generose, vuole andare oltre la semplice tendenza e le forze che la limitano portandola alla ghettizzazione”.