La prima cosa che si incontra quando si atterra a Londra è di norma un lettore su cui poggiare il passaporto. Buona parte delle operazioni all’immigrazione a Heathrow sono ormai automatizzate: lo scanner legge i dati biometrici dei documenti, scatta una foto ai passeggeri e apre, o non fa aprire, le barriere. Solo in quel momento si è davvero a Londra: dopo i controlli doganali, che valgono anche per i cittadini dell’area Schengen, una distinzione che in tempi di Brexit potrebbe non valere presto più nulla.
La metro concede di entrare un po’ di più dentro Londra allo stesso modo, appoggiando una carta su un lettore, Oyster o carta di credito contactless, non fa differenza. Poi si scende nella tube, al Terminal 5, ancora straordinariamente vuota, e si aspetta che i vagoni si riempiano di facce, di tipi umani e storie di londinesi di vario tipo: persone di passaggio, turisti, gente della finanza, homeless. Tutti entrano o cercano di entrare un po’ di più dentro Londra, come se la città fosse una faglia.
Let Them Eat Chaos di Kate Tempest assomiglia all’effetto che fa Londra vista con gli occhi di chi cerca di entrarci. Difficile stabilire se sia un libro (edito in italiano da e/o) che raccoglie i testi dell’omonimo disco (uscito a fine 2016) o se quel disco metta in musica il libro. Libro e disco non sono nemmeno concepibili separati, sono la stessa opera, lo stesso ingresso in Londra, seppur fatto con mezzi diversi. Kate Tempest, classe 1985, è una delle figure culturali più interessanti degli ultimi anni: è autrice, rapper, poetessa, ma prima di tutto è una voce, potente e urgente, in grado di dare una forma al contemporaneo. I volti che si incontrano nella metro da Heathrow al centro di Londra potrebbero tutti uscire da Let Them Eat Chaos o da The Bricks That Built the Houses (Le buone intenzioni nella traduzione italiana di Frassinelli), il romanzo d’esordio di Tempest che con la sua opera più recente condivide personaggi, umori e la medesima città: Londra, con i privilegi che regala e le psicosi che chiede in cambio.
Il lavoro di Kate Tempest riesce a fare una sintesi della coscienza collettiva della sua generazione dando forma a una serie di personaggi - tutti londinesi di nascita o di adozione - che si trovano svegli per motivi diversi, senza riuscire a prendere sonno, alle 4:18 di una notte qualsiasi. C’è chi è stato gentrificato dal proprio quartiere e sa che spostandosi contribuirà a gentrificare qualcun’altro; c’è chi ha un buon lavoro, si sta sistemando, ma passa il suo tempo a fare video con lo smartphone sperando di smettere di pensare di vivere la vita di qualcun’altro; c’è chi, emotivamente spezzato, si perde nella rassicurante compagnia dei propri spettri e chi “si preoccupa per lo stato del mondo” e di cosa fare per svegliarsi. Sono sette sconosciuti che condividono la ricerca di una forma di autenticità privata in uno Zeitgeist che appare frammentato, vacuo e incapace persino di immaginare il futuro.
Let Them Eat Chaos è un lavoro che tratta della stasi della stessa generazione dell’autrice, del conflitto dei nati negli anni 80, cresciuti convinti che il futuro sarebbe arrivato insieme alla loro età adulta e che invece hanno conosciuto solo gli spettri di entrambe le cose. L'autrice dà forma allo stato d’animo di chi si muove in circolo e mai in avanti, attraversando futuri cancellati sia sul piano intimo che politico. Kate Tempest fa in questo senso qualcosa di molto politico quando rappa o scrive di mutamento climatico, razzismo, migranti, guerra al terrorismo - come avviene in uno dei brani più riusciti, Europe Is Lost - ma anche quando canta dei traumi dei suoi personaggi.
La summa perfetta della sua poetica sono forse i primi otto minuti di spoken word della sua performance all’ultimo Festival di Glastonbury, dove Tempest mette insieme un’invettiva contro Theresa May e un estratto della sua opera in versi Brand New Ancients del 2013, in cui, raccontando le vicende intrecciate di due famiglie, sembrava voler ricordare alla sua generazione il valore mitico dei suo stessi limiti. “We’re still godly, call us by our name” dice Kate Tempest di fronte a decine di migliaia di persone, e lo stesso vale per una pagina o brano qualsiasi di Let Them Eat Chaos.
Kate Tempest abita quello Zeitgeist, quell’atmosfera, e riesce a rappresentarla, comprenderla, esporla, denunciarla. Sullo sfondo c’è Londra, una città che potrebbe essere una qualsiasi altra, ma che nel lavoro di Tempest e per i suoi personaggi è metafora di una barriera, anche simbolica, di ingresso nel reale, nel possibile o nella possibilità di vedere oltre gli spettri. Poi una tempesta improvvisa travolge la città, i sette protagonisti e le loro stasi in quello che è il climax di Let Them Eat Chaos, Tunnel Vision: "Il malessere della cultura e il malessere nei nostri cuori è un malessere inflitto dalla distanza che condividiamo", riflette uno dei sette mentre attorno a loro c’è la tempesta.
Let Them Eat Chaos è un’opera lirica, potente e con una voce estremamente a fuoco, anche quando si apre alla politica, e lo fa senza mai perdere il suo tocco poetico e senza scollegarsi mai dall’intimità dei personaggi cui dà forma e a quella delle persone cui si rivolge. Il punto esatto di arrivo di Let Them Eat Chaos è la faglia tra privato e pubblico: lo snodo dove nasce la stasi dei sette personaggi del libro. Kate Tempest ha cristallizzato quella sensazione e non c’è un’artista che lo abbia fatto meglio o con più energia, mentre guardava “al futuro che ci è stato lasciato”.