(...) Mi ha fatto pensare questo l’ondata dionisiaca che Kate Tempest trattiene e poi scatena in acquazzone-lavacro-di-amore nel suo magistrale poemetto Let them eat chaos (Che mangino caos). Kate (Esther Calvert, all’anagrafe) ha 32 anni, ma ha volto e voce di adolescente; non ha una voce teatralmente educata, ha la sua voce; ma non è una voce languida di poetessa triste. Non si accompagna con la lyra con cui si accompagnavano tutti i poeti greci, ispirati dal fuoco passionale e dionisiaco delle Muse, ma conosce molto bene l’arte che le Muse hanno scaturito, ovvero la mus-ica, che è rimasta tanti secoli con la poesia, sino alla lengua de oc, ai troubadours che Dante conosceva e omaggiava non accompagnandosi più con la musica (dicono che Petrarca invece a volte si accompagnasse con il liuto cantando i suoi versi, ma non trovo il link!), e che erano “cantautori” che si accompagnavano con il liuto di origine andalusa. Non si accompagna con l’organetto a mantice indiano con cui Allen Ginsberg si accompagnò quasi sempre, e che se tace mentre lo leggiamo lo dimezza. (Ginsberg cantò Blake, trasformando le sue Songs of Innocence and Experience in nursery rhymes, in ballad ubriaca, in foolish song).
Kate Tempest è una MC, una Mistress of Ceremony: il rap con i DJ ha aggiunto ai dozens di strada dei quartieri afroamericani di New York alla fine dei Settanta i primi scratch da vinile; i dozens erano battaglie di insulti tra gang in rime, erano cioè poesia di strada cui dopo si è aggiunta la musica come frammento ritmico, e non come melodia. Sul palco ricorda a memoria, senza sbagliare una parola, o perdere mai le svolte struggenti del suo lamento o furiose della sua invettiva, le centocinquanta pagine del suo poema. La accompagnano alcuni strumentisti, che al suo scritto (che possiamo leggere tradotto davvero bene da Riccardo Duranti per e/o) e alla sua passione aggiungono un doppio ai silenzi.
Kate racconta sette insonni nella stessa notte di Londra; «It’s four eighteen» sono le 4:18 di lui e lei strafatti di menfetamina o distrutti da un turno di notte, etilisti in vicoli sordidi e fighetti e fighette della City con i loro weekend e i loro mutui. Tutti sono disperatamente soli, ma sono «the people. The life. | Their faces are bright in your body. | You’re feeling. | You want to be close to them. | Closer»: Kate comincia così verso il pubblico nelle sue potenti e stupende performance; è veramente maestra di cerimonie, è sacerdotessa druidica, invasata dai suoi dei, sudata, con i boccoli biondi che mulinano sulle guance infuocate; vuole che noi ci avviciniamo a tal punto alla sua rappresentazione che sentiremo nel nostro corpo la luce di quei volti. Poi, capiremo, siamo noi quella gente.
Noi insonni che non capiamo più niente della nostra vita, che camminiamo di notte cercando invano il sollievo dell’alba, e dovremo tornare al lavoro senza aver dormito. Soffocati dalla non-vita. Alternando scariche di rapper e declamazioni di tragicità shakespeariana Kate Tempest lavora a un crescendo magistrale, nella sua ora di poetessa parlante, talvolta quasi cantante: l’elettricità emotiva si addensa in modo insoffribile, sino a che la tempesta shakespeariana arriva nella notte di Londra, spalanca con i suoi turbini le porte degli appartamentini dei miseri sette-noi, scroscia il diluvio universale che toglie il secco della solitudine cui è restato solo un sesso piacevole e senza relazione emotiva; sappiamo tutto, dei bombardamenti delle guerre dei bambini morti
neanche una traccia d’amore
nella caccia
al massimo
profitto.
Qua
nel paese
dove a nessuno
frega un cazzo.
ma tutto rimbalza come un’eco ovattata in noi
bloccati
come pietre
in un
ruscello pigro.
Siamo persi Siamo persi Siamo persi Siamo persi Siamo persi
Siamopersisiamopersisiamopersi
Siamo
davvero
persi.
«Londra è una fortezza per ricchi, se non ce la fai sei fuori» ma il chaos dell’uragano sta arrivando, e infine arriva l’orgasmo della catarsi, la pioggia sveglia i morti viventi, ognuno vede l’altro, e la piccola sacerdotessa chiude con parole stupende: «La fiducia è la fiducia è una cosa che non vedremo mai finché l’Amore non sarà incondizionato. Il mito dell’individuo ci ha lasciati scollegati smarriti e in stato pietoso. Me ne sto sotto la pioggia in una fredda notte londinese urlando ai miei cari di svegliarsi e amare di più. Scongiurando i miei cari di svegliarsi e amare di più».
La piccola grande Kate in Gran Bretagna è ripresa e prodotta dalla Bbc, e sale sul palco di Glanstonbury come Jeremy Corbyn, come lui accolta dalle ovazioni del popolo rock. Viene premiata dalla bella società letteraria, riceve nomination nei premi discografici pop. Kate è una grande poetessa e una eccellente performer, dà voce al sentire di un tempo e di una generazione. Ma la celebrità le viene dalla poesia per musica, dalla passione condivisa che la musica ha reso turgida nei suoi versi, che sono, muti, notevole letteratura. Nella sua ora sul palco fa ridere di gusto il pubblico due volte, ma tira dritto senza godersi l’applauso.