Il suo Bussola ha vinto il premio Goncourt nel 2015, dopo avere sfiorato il Man Booker International Prize. In Italia ha vinto il premio Von Rezzori. Mathias Enard viene presentato come uno scrittore erudito, come un intellettuale che sfida il suo lettore, non accontentandosi di una presunta stupidità del ricevente. E tutto questo è bellissimo, ce ne fossero, no? Le cose però sono un po’ più complicate; o almeno, dovrebbero esserlo. Mi spiego.
L’alcol e la nostalgia precede Bussola di quattro anni, ed è “l’adattamento più o meno fedele di una fiction radiofonica scritta sulla Transiberiana fra Mosca e Novosibirsk e trasmessa da France Culture”. La storia: il protagonista della novella torna in Russia dopo anni perché è morto Vladimir, un vertice del un triangolo amoroso in cui lui e Jeanne, parigini, occupavano gli altri due. Il suo scopo diventa portare le ceneri dell’amico fino a Novosibirsk, in treno.
Anni prima, Jeanne e il protagonista vivevano a Parigi, dove si trascinavano in una vita che sbrodola alcol e “sostanze psicotrope”; la coppia, forse sfibrata dall’abitudine e/o dalle velleità dei due, decide di cambiare aria. Il protagonista infatti vorrebbe scrivere, e credersi scrittore, ma non ha ancora capito che scrivere bene e addormentarsi ubriachi ogni notte sono due attività inconciliabili; possono presentare diversi punti di contatto certo, con profitto per entrambi, ma conciliarsi, no.
“Rileggevo Cattedrale e appena ero un po’ carico di alcol provavo a scrivere un racconto, ma non c’era niente che funzionasse, né la diamorfina né l’oppio quando ne trovavo, né l’alcol quando non c’era altro, non c’era niente che funzionasse, nemmeno la letteratura russa”.
La letteratura russa come alternativa agli stupefacenti. Il protagonista non ha ancora capito che è difficile crescere come scrittori, se si rileggono soltanto Cendrars, Kerouac e Carver (e non si è nessuno dei tre): non l’ha ancora capito, ma lo capirà. In Russia capirà che certe persone non sono soltanto profondamente insicure, ma anche un po’ stronze; capirà che Vladimir aveva un ottimo rapporto con l’eroina, ma soprattutto con se stesso.
Visto che siamo in tema, scomodiamo Majakovskij: il protagonista capirà che “in questa vita / non è difficile / morire. / Vivere / è di gran lunga più difficile”, come scrive in ricordo di Esenin, un altro poeta annegato nell’alcol, e nell’autocommiserazione. Non è chiaro perché il protagonista abbia mai amato Jeanne, una ragazza della quale non sappiamo quasi niente – e il poco che sappiamo la fa sembrare un’egoista auto-riferita (dall’alito “un odore di etere, vodka o medicine”); non è chiaro perché lei e Vladimir si siano innamorati; o forse sì, la droga? Un’insofferenza per i loop paranoici dell’altro?
La seconda metà del libro però accelera, forse perché nel mio caso il ritmo della storia si è sincronizzato a quello del lettore, disteso in un intercity notturno: mentre leggevo del panorama scorrevole della taiga e delle ore infinite in treno, dalla finestra del vagone saliva la nebbia dalla campagna lodigiana, qualche metro oltre la mia cuccetta partita otto ore prima da Foggia.
Più di un triangolo amoroso, il libro nasconde in realtà una piramide: i quattro vertici alla base sono occupati dai tre ragazzi e dalla Letteratura. I libri le poesie e la scrittura non li abbandonano mai, fino alla fine, li uniscono e li dividono, soprattutto quel verso di Mandel’stam: “ancora non sei morto, ancora non sei solo”. Tutte le facce della piramide sublimano nel vertice: il vertice è la RUSSIA.
L’alcol e la nostalgia è un bignamino su tutto quello che è RUSSIA, la risposta a tutto quello che non sapevate di non sapere e che non avete mai avuto il coraggio di chiedere. C’è il Čičikov gogoliano, c’è Guerra e pace, c’è L’armata a cavallo, c’è Memoria dalla casa dei morti e la Lubjanka e Ejzenštein e tutti gli altri… Se c’è un’assenza che si avverte, nel turbine delle citazioni, è quella di Mosca-Petuški di Venedikt Erofeev, la penna geniale capace di raccontare un viaggio sbronzissimo dalla capitale a un vicino centro di provincia, una tratta claustrofobica che abortisce in partenza l’idea di un’epica transiberiana, così come l’alcolismo – panis sovieticus – ha abortito il potenziale incendiario di uno scrittore morto ai bordi del canone.
Certo, il discorso non può ridursi a questo. Il gioco letterario non è una partita di Trivial Pursuit, una pesa degli scaffali. Resta comunque il dubbio. Se in Italia uscisse il romanzo di un tedesco che una pagina su due tira la manica a Dante, Andreotti, Saba, Salvemini e Renato Curcio, poi magari i Battisti, Lucio e Cesare, e l’Antica Roma, i Savoia e il Merlot, la livrea di Alitalia e la postura del Duce… come verrebbe recepita questa affettuosa appropriazione culturale? Non lo so, penso a Foggia, davanti a una fontana illuminata al neon e due palme alte e uccelli che cantano nel buio: in fondo perché accanirsi su chi ancora ci prova, su chi vive per leggere, su chi, come Enard, vive per contagiare il virus.