Kate Tempest è una poetessa inglese e una spoken-word artist (scusate, ma rende davvero soltanto nella lingua originale). Ha trentadue anni e da quando ne aveva ventotto scrivono di lei che è un tumulto, uno scossone, una voce generazionale. C'è un buon numero di video di sue performance su YouTube con lei che, al centro di palchi la maggior parte delle volte molto bassi e quadrati, come i ring, parla il cantato e canta il parlato, insomma fa rap, in un inglese un po' cockney e sempre preciso, netto, autorevole. La traduzione del suo Let them eat caos (Che mangino caos) di Edizioni e/o restituisce la medesima precisione e non spezza l'attrazione, le calamite tra le parole. Sotto al titolo, si legge: "Questo poema è stato scritto per essere letto ad alta voce". Forse perché non è solo un poema, ma pure una lettera a tutti, a noi, cioè - come purtroppo usa dire - aperta. Si apre con un invito a immaginare il mondo, "più vecchio di quanto avrebbe mai pensato di diventare. Si guarda mentre ruota" e continua, per ottanta pagine, ad aprirlo ed eviscerarlo: lo fa con così tanto talento per la verità che ciascuno, nelle sue parole, ritrova il proprio spazio e le cose di cui è diventato responsabile, perché le ha tralasciate e poi abbandonate. Bisognerebbe credere alla poesia civile per dire che tutti gli appelli di cui questo poema è disseminato fanno di Kate Tempest una poetessa civile, ma la poesia è poesia e basta. Quello, però, che forse si può dire, senza scomodare definizioni o ridefinizioni, è che la poesia di Kate Tempest fa quello che secondo Emil Cioran bisognava che un libro facesse ("aprire vecchie ferite, talvolta infliggerne") e fosse ("un pericolo"). Così, in ottanta pagine in giro per Londra, alle quattro e qualcosa del mattino, Tempest ci mostra che "andiamo in giro tutto il giorno ma non sappiamo andare avanti" e che dormiamo e sogniamo "per tenere a portata di mano il sogno" e che siamo scontenti, tutti, soprattutto quelli con il futuro sistemato, fermi "a costruire un proprio io e una psicosi".
L'elenco delle cose che abbiamo fatto senza cuore, dimenticando il cuore è, però, un primo vento di rivoluzione: è vero che Londra è piena di zombi ed è "tutta per i ricchi, se non ce la fai, sei fuori", che i bingo sono diventati vinerie con personale laccato e annoiato, che la sensazione di guardare la vita da dietro un vetro sembra destinata a non passare mai, ma "il senso della vita è vivere", "si muore perché altri possano nascere". E il dono della Tempest è tutto qui, nel ricordarci che nulla è cambiato, anche se molto è stato stravolto e soffocato: siamo ancora l'umanità, nasciamo per amore e moriamo per amore. "Me ne sto sotto la pioggia urlando ai miei cari di svegliarsi e amare di più". Immaginatevi questo verso rappato su un ring.