Da anni Kate Tempest (nata nel 1985) è una brillante stella della scena artistica britannica. Poetessa, romanziera, drammaturga, rapper e performer dalla presenza scenica intensa e non priva di dolcezza, si muove su un territorio in cui non esistono confini di genere né di tempo: i miti greci convivono con la tradizione poetica inglese e con quella dell’hip-hop, e gli album sono anche poemi «scritti per essere letti ad alta voce». Kate, il cui vero cognome è Calvert, cresce a Brockley, un quartiere difficile e multietnico a sud-est di Londra che, dice, è ancora «il mio motore e la mia àncora». A 16 anni comincia a esibirsi come rapper e a collaborare con artisti famosi. Laureatasi in Letteratura inglese, nel 2012 pubblica la prima raccolta, Everything Speaks in its Own Way, e vince il premio Ted Hughes con Brand New Ancients, storia di due famiglie londinesi in cui rivivono personaggi e situazioni del mito greco. Anche la successiva Hold Your Own (2014) è costruita intorno a una figura mitologica, l’indovino Tiresia.
Angry young poet contemporanea, Kate Tempest parla di esseri umani soli, smarriti, di rapporti liquefatti, di ingiustizie sociali, scandali politici, assenza di speranze. La sua attività è molto intensa e assortita: le sue performance attirano ovunque un pubblico numerosissimo, ma ha scritto anche per la Royal Shakespeare Company e per la Bbc. È stata per due volte finalista al Mercury Music Prize con gli album Everybody Down (2014) e Let Them Eat Chaos (2017), ha pubblicato un romanzo, The Bricks that Built the Houses (2016; Le buone intenzioni, traduzione di Simona Vinci, Frassinelli 2017), e ha diretto il festival di musica, teatro, letteratura e arti di Brighton (2017).
Fino a pochi mesi fa, Kate Tempest era nota in Italia soprattutto come rapper e performer ma ora, dopo il romanzo già citato, viene pubblicato il poema Che mangino caos, tradotto da Riccardo Duranti (Edizioni e/o). Il testo, interpretato nel disco omonimo, si apre con uno zoom che dall’oscurità dello spazio infinito arriva sulla Terra e in una strada di Londra, dove «sette persone diverse in sette appartamenti diversi» sono sveglie alle 4.18 del mattino, mezz’ora prima del momento di cui parlava la drammaturga Sarah Kane nella più poetica delle sue opere, Psicosi delle 4 e 48, «quando la disperazione» e «la lucidità mi fa visita» e, secondo le statistiche, si è più portati verso il suicidio.
Alle 4.18 i sette insonni, rappresentanti di una «Generazione a Noiaunica», sono fotografati nella loro unicità, nella loro solitudine e nel comune desiderio di sentirsi vivi. Sullo sfondo, la crisi globale («L’Europa è perduta/ L’America, perduta/ Eppure rivendichiamo a gran voce la vittoria»), mentre migliaia di esseri umani fuggono dalle guerre in barconi che affondano. Che mangino caos, infatti, è anche un’opera di denuncia delle ingiustizie, della corruzione morale dei politici, dei disastri ambientali e delle responsabilità politiche della Gran Bretagna.
All’improvviso, alle 4.18, il silenzio è lacerato da una furiosa tempesta, che spinge i «sette cuori spezzati», perfetti sconosciuti, ad aprire le porte dei loro appartamenti e uscire, vedersi finalmente, riconoscersi nella comunità umana. Le nuvole che provengono dai quattro angoli del mondo, e che possiedono una loro voce, hanno raccolto le forze per cercare di scuotere gli uomini chiusi nel loro egoismo e spingerli a danzare nel diluvio. Non un diluvio universale ma un avvertimento, «un amico [...] venuto a ricordarti/ che non sei un’isola»: lo aveva già rivelato John Donne, ma occorre che qualcuno, oggi, ripeta che siamo «scintille/ particelle/ di una costellazione più grande». E che l’unica via d’uscita è «svegliarsi/ e amare di più».