Kate Tempest ha scoperto la poesia in strada. A Lewisham, sobborgo popolare di Londra, dove c’è la stazione di polizia più grande d’Europa. Kate è nata lì, nel 1985, la più piccola di cinque fratelli e sorelle. Ha lasciato la scuola presto, ha vissuto da squatter, ha fatto la commessa in un negozio di dischi a 14 anni, si è ammazzata di canne come tanti adolescenti, si è innamorata del rap, ha studiato musica e poi poesia in corsi per adulti assieme a postini e casalinghe «gente vera». Un giorno, racconta, «qualcuno mi ha portato a una serata di slam poetry. Amavo già William Blake, a scuola avevo studiato Yeats, ma era una cosa diversa. Una stanza piena di esseri umani, insieme per comporre versi, e recitarli, e ascoltare gli altri. L’ingresso era libero, il microfono anche. Era un modo di fare poesia capace di parlare al profondo, dove la parola scritta non arriva».
Quando chiacchiero con lei si sta preparando per la serata del Mercury Prize (vinto dal cantautore britannico Sampha) dove è stata nominata per il suo album Let Them Eat Chaos. In mezzo a nomi come Ed Sheeran e Alt-J, Tempest si staglia come l’outsider totale. La borgatara londinese bianca che fa hip hop, la ragazzina dai capelli rossicci che a scuola i maschi bullizzavano perché non si vergognava della sua omosessualità. La poetessa che è anche rapper, scrittrice, drammaturga, performer torrenziale con l’accento da proletaria dei pub di South London. Rimescola l’arcaico e il presente: Sofocle e i Wu-Tang Clan. Una sera sul palco di Glastonbury e quella dopo tra i velluti del Royal Court Theatre di Londra. È la prima under 40 ad aver vinto il Ted Hughes Award, con il poema teatrale Brand New Ancients (che reimmagina le vite degli antichi dei greci come se fossero due famiglie londinesi di oggi). Questa è la sua seconda nomination al Mercury; la prima fu nel 2014 per l’album d’esordio Everybody Down. Per capire, provate a immaginare una scrittrice italiana che a trentun’anni sia già entrata per due volte in cinquina allo Strega.
Let Them Eat Chaos (Che mangino caos), prima di diventare un album rap lacerante, era nato come poema «scritto per essere letto ad alta voce», e come tale arriva in Italia, pubblicato da e/o nella collana Assolo e tradotto da Riccardo Duranti. «Che effetto fa in italiano?» è curiosa di sapere. È come la notte in cui tutto si svolge, sembra tranquilla «senza orrore», poi ti travolge. «Cool», commenta lei. Non spreca le parole; ascolta con attenzione e a volte ci pensa un po’ prima di rispondere. Non ha mai fatto mistero di amare poco le interviste. Tanta voglia di comunicare; pochissima di parlare di se stessa.
Ma è difficile non partire proprio da lei, ad esempio dal nome d’arte (sul passaporto è Kate Calvert). Omaggio a Shakespeare? «No, no...». Al cantante degli Europe Joey Tempest ? Si mette a ridere. «Molti pensano che sia per via di Shakespeare e invece non l’ho mai neanche letta La tempesta. In realtà è il mio nome da rapper. L’ho scelto a 16 anni, la prima volta che mi sono esibita, in un negozio di dischi di Carnaby Street che ora non c’è più. Avevo questo stile... burrascoso. E poi ho sempre amato i temporali. Il cielo che si gonfia; la natura che ci ricorda che siamo solo umani».
C’è una tempesta apocalittica in arrivo su Londra anche in Let Them Eat Chaos. Sono le 4.18 del mattino (nell’ora dei suicidi, come spiegò bene Sarah Kane nel suo ultimo lavoro 4.48 Psychosis), sette persone nelle loro case, nella stessa strada di periferia, «non riescono a dormire e non riescono a svegliarsi». Seminterrati, garage, materassi giù in strada, Esther sveglia in cucina a fare panini pensando allo stato del mondo; Jemma con «il cuore ricoperto di nomi scritti con lo spray/di tutti gli amici che si sono persi per strada»; Bradley, che ha un buon lavoro ma issa la sua esistenza come uno strapiombo sul vuoto e gira filmini col cellulare per controllare di essere vivo. «Il livello del mare sale!», ma che importa, c’è l’happy hour in centro. «Massacri massacri massacri/ scarpe nuove». La realtà è un incubo da cui non ci si riesce a svegliare. Ma che non fa neanche addormentare.
Perché ha scelto le 4.18 del mattino? «È un’ora strana, ma è quella in cui i personaggi sono completamente esposti alla loro vulnerabilità. Soli con se stessi. Un tempo che non appartiene al capoufficio, al partner o ai figli. Solo a loro. Non puoi nasconderti da te stesso a quell’ora del mattino». I versi finali riassumono il messaggio: dobbiamo cercare di «svegliarci e amare di più, oggi è una forma di militanza». L’ottavo personaggio della storia è Londra: una presenza quasi fissa in tutto il suo lavoro. «La città è molto diversa da quando ero piccola. Un tempo sobborghi come il mio erano pieni di spazi, perché erano zone povere che non interessavano a nessuno. Poi è iniziata la gentrificazione: è cambiato così il tessuto sociale dei quartieri. A Londra ci sono gli slum, gente che vive in condizioni di povertà estrema accanto ad alcune delle persone più ricche del Paese. Ci piace pensare di essere una società post-razziale evoluta ma poi tragedie come Grenfell Tower ci ricordano che non è così e sarebbe ora di fare questo discorso pubblicamente». Ma la politica attiva non la attira: «Mi interessano le persone. Il ragazzo di fronte a me in coda al supermarket, la donna che ho incrociato uscendo dalla metro».
Le braccia tatuate, i capelli una matassa indisciplinata, l’aria da ragazzina cresciuta in fretta, Kate Tempest è una presenza dificile da ignorare. Non si trucca mai, il che in qualche modo ne sottolinea il carisma un po’ pasoliniano. L’energia che ha dal vivo merita di far passare un po’ di tempo su YouTube a guardare i suoi video. Eppure, ricorda lei, «all’inizio nessuno mi prendeva sul serio, non ascoltavano. Ero io che non sapevo usare la lingua giusta? Ho pensato soprattutto a quello che avevo da dire. William Blake da vivo era considerato un pazzo alcolizzato, ma non ha smesso di scrivere». E con una citazione di Blake apre ogni suo libro, racconto o raccolta di poesie che sia. Al momento sta lavorando a un nuovo album, e a una sua versione del Filottete di Sofocle.
«Mi chiedono sempre cos’è che mi affascina dei classici greci. Sono una scrittrice, come potrei ignorarli?». La mitologia è un filo rosso che si snoda attraverso i suoi libri, Brand New Ancients (2013); Hold Your Own (2015), che riscrive la storia di Tiresia l’indovino in forma di allegoria; The Bricks that Built the Houses (2016), il primo romanzo, un quartetto di amici londinesi che affonda tra droghe, sesso e lavori da quattro soldi, apatia, fuga – sì ma dove? All’inizio cercava di seguire l’esempio dei «rapper che hanno qualcosa da dire», ora ha uno sguardo più vorace.
«Puoi mettere in rima i soldi, il lusso, le macchine veloci e una promiscuità che ti renda in qualche modo socialmente riconoscibile; è quello che ci offrono questi tempi. Oppure puoi raccontare chi lavora ferocemente riducendosi allo stremo per pagare il mutuo ogni mese, e sposare chi vuole, e comprare la macchina che vuole e pensare in questo modo di essere felice. Rappiamo su chi cerca di cavarsela vendendo droghe o chi vendendo polizze auto, alla fine è la stessa vita. Sono gli stessi versi. E noi siamo gli stessi sintomi, della stessa malattia».