La maestra soldatessa, con le sue mollettine colorate e i suoi ricordi d’infanzia, inaugura Perle alla luce del giorno, la raccolta di racconti di Savyon Liebrecht , scrittrice israeliana pubblicata in Italia da Edizioni e/o. Come spesso accade nei suoi testi anche in questo libro le protagoniste sono donne alle prese con l’affermazione della propria personalità in un mondo che sembra sempre di più voler marginalizzare la loro presenza, e in cui il diritto alla felicità sembra essere oscurato dalla patriarcale organizzazione della vita.
In questo primo racconto una giovane donna decide di lasciare la base militare per intraprendere il difficile mestiere dell’insegnante con la speranza e l’ambizione di istruire ragazzini poveri e di portare loro, insieme all’istruzione, la possibilità di una vita diversa. Siamo a sud di Israele, lei è Tamar e dovrà capire a sue spese che il solo modo per far breccia nelle menti dei giovani violati dalla vita, è l’autenticità, lo scambio di sguardi sinceri, il linguaggio semplice e poco forbito delle piccole cose quotidiane. Prima di provare a discutere di Charles Dickens e Jules Verne, dovrà imparare a scegliere le giuste cipolle e le giuste melanzane per preparare uno sformato di verdure.
«Lo sai perché è successo tutto quel casino in classe?».
«No, perché?».
«Perché sei troppo bella».
«Troppo bella?» Tamar era sbalordita.
«Ovvio (…) »
«E allora cosa devo fare?» chiese alla ricerca di una soluzione a quell’inaspettato problema.
«Essere meno bella».
A suggerirle la strada per cambiare veramente le cose è Zachi, suo alunno e figlio del fruttivendolo del paese. Zachi ha occhi che, a differenza dei suoi coetanei, sanno sognare un futuro migliore; la sua voce, sottile e fugace, si ripresenterà anche nei successivi due racconti legati insieme come pagine di un romanzo o come ulteriori possibilità di raccontare un’analoga vicenda: quella del dramma di una famiglia, gli Amsalem, le cui vicissitudini si delineano con più precisione in D. Amsalem e in Ricordi?
Scrittrice e lettore, in questi tredici racconti, si fondono spesso in uno sguardo ampio e fagocitante in grado di ingoiare un ampio corollario di situazioni, dalle più drammatiche alle più fiabesche, attraverso una tecnica che ricorda molto quella del chiaroscuro. Luci e ombre ricamano immagini di una precisione e di una bellezza schietta e decisa priva di inceppamenti lirici, ma, allo stesso tempo, intrise dal tono mistico di una preghiera. Sono gli occhi malati della piccola Dina Amsalem a introdurre questa silente sacralità con cui l’autrice racconta le cose, occhi che bruciano, irritati e costretti al buio, che per essere curati necessitano di un unguento speciale fatto con il latte materno:
Quell’ora in cui veniva privata della vista si trasformava in un tempo senza rumori. Con gli occhi chiusi sotto la benda imbevuta di latte materno rimaneva seduta nell’angolo più buio della stanza, con il viso rivolto al soffitto secondo le istruzioni dell’irachena, pensando a se stessa, principessa malata, e al medico che di lì a poco avrebbe trovato per lei una pozione magica.
E, come in Nero latte dell’alba di Celan, anche qui, il bianco indiscutibile del latte viene acuito dal buio di una cecità momentanea e la guarigione degli occhi di Dina è accompagnata da un disvelamento di eventi tragici e cupi, a cui non è possibile porre rimedio se non attraverso la celebrazione del ricordo.
Lo stesso avviene nel racconto che dà il titolo alla raccolta, in cui il dramma della Shoa viene raccontato dal punto di vista di una famiglia di cristiani e attraverso una vicenda che tiene fuori dal campo visivo del lettore le immagini consuete del genocidio per evocarle con angoscianti e drammatiche presenze/assenze: una cittadina della Polonia viene svuotata dagli ebrei e i cristiani ne occupano abusivamente le case. La famiglia del fabbro Klimas si impossessa di una villa piena di oggetti preziosi e abitata da un devastante senso di colpa che piano piano annienterà la mente della nuova padrona.
Nelle prime settimane Regina ebbe l’impressione che la casa osservasse con sospetto i nuovi inquilini, soprattutto lei. Le pareva che alcuni oggetti si ribellassero, le cadessero di mano e si rompessero di proposito, come se volessero ferire gli usurpatori e proclamare in maniera misteriosa la propria fedeltà a chi li aveva scelti con amore, non a chi se li era trovati tra le mani per caso.
A rendere concreto il buio dell’umanità distorta, ai tempi del nazismo, è l’immagine di una collana di perle bianche che non può essere indossata alla luce del giorno, che deve restare nascosta e attendere che il tempo rimetta le cose al loro posto ristabilendo i confini tra ciò che è giusto e ciò che giusto non è.
Di tanto in tanto si rintanava in camera da letto, chiudeva la porta a chiave, sfilava la collana dal nascondiglio e se la metteva al collo con dita tremanti, rimanendo a lungo davanti allo specchio ovale con gli occhi calamitati alla propria immagine. Allora si vedeva come un’aristocratica principessa illuminata dalla luce irradiata dal gioiello. Immaginava di aver visto la collana in alcune fotografie della signora Brand che avevano buttato via ma, decise in cuor suo, quando avessero restituito la casa, lei l’avrebbe tenuta in ricordo. E affinché nessuno dei compaesani sapesse che se n’era appropriata lei e lo riferisse ai Brand al loro ritorno, non l’avrebbe indossata per andare in chiesa.
Nel racconto Occhi l’ossimoro narrativo della Liebrecht si dichiara del tutto attraverso la figura di Rachel, giovane donna dal marito infedele il cui sguardo acquista la capacità di vedere oltre le cose proprio nel momento della cecità.
L’obiettivo è sempre quello di mettere in luce le ombre e in ombra le luci, scardinando luoghi comuni e scompaginando l’ordine delle cose, la loro comune percezione.
Questo meccanismo si evince benissimo in Figli in cui il dialogo interiore di un medico, inizialmente deciso a far pagare a una madre gli anni di assenza nella vita del figlio morente e colpevole di essere omosessuale, si sfalda in un sentimento solidale determinato da un comune senso di impotenza di fronte alla fatalità della vita, di fronte al dolore tacito e assordante della perdita di un figlio e alla comprensione del difficile ruolo di donna e madre all’interno di un universo ristretto e punitivo come quello degli ebrei osservanti.
Nel racconto finale del libro, la Liebrecht riflette, invece, sulla scrittura, sulle possibilità tecniche che essa ci offre per orientarci tra gli equilibri incerti che la vita ci pone davanti.
Nel Narratore onnisciente, infatti, ci troviamo in compagnia di una ragazza alle prese con la definizione del suo più grande sogno: diventare scrittrice. Nelcorso di un’estate a Tel Aviv diventerà adulta, di un’ ‘adultità’ che ha poco a che fare con le preoccupazioni dei genitori:
La città, le aveva detto sua sorella roteando gli occhi, è piena di gente malvagia, è una trappola per ragazze ingenue come te. E con voce perentoria aveva aggiunto: «E quando torni, per prima cosa, mamma ti spedisce a un consultorio per controllare se sei ancora vergine».
La città, invece, regalerà ad Ofira la maturità per osservare le cose da differenti punti di vista, per scorgere spunti di narrazione in oggetti e soggetti quotidiani, per rivedere situazioni, per ergersi al di sopra di uomini ed eventi e narrarli al di là di qualsiasi preconcetto.
Poi lei avrebbe annunciato di avere imparato cose nuove su se stessa e sugli altri e di essere pronta a fare ciò che il destino le riservava: scrivere storie, riferirle con scrupolosità, vedere le sofferenze degli altri, evitare di giudicarli, osservarli, leggere nel loro cuore, esaminare gli aspetti nascosti delle loro azioni, celati dietro la realtà visibile, raccontare le loro vicende con maggiore fedeltà di quanto potessero fare loro stessi, prodigarsi con amore pe raggiungere quel fine, essere una narratrice onnisciente…