“La Banalità dell’Amore” è un’opera scritta in chiave teatrale sul discusso legame sentimentale tra la teorica della politica Hannah Arendt e il filosofo Martin Heidegger. L’autrice, Savyon Liebrecht adotta la scelta narrativa della pièce teatrale, ambientando la storia tra i due amanti su un palcoscenico diviso a metà; qui i ricordi si riavvolgono e si sovrappongono in un’unica certezza: l’amore tra la Arendt e Heidegger.
Un campale palcoscenico diviso in due parti ben distinte a farsi voce di una storia; la narrazione di un dissidio amoroso, storico e identitario: il discusso legame tra Hannah Arendt e Martin Heidegger. È un memoriare che l’autrice Savyon Liebrecht, ne l’opera “La Banalità dell’Amore” sceglie di cadenzare mediante il verso teatrale. Una pièce che, tra retrospezione e sovrastruttura temporale, riammanta in sé il sistema spazio tempo e rivela alla maniera di una sceneggiatura i dissidi scardinanti le vite dei due protagonisti. Duttevoli conflitti che dal palco si fanno stemmi ferenti di un corpo dilaniato in senso e senno, in carne e ratio, in nazione e appartenenza, in memoria e presente di un’anziana Arendt che si riavvolge in una giovane Hannah.
Il primo attore si esibisce nell’imponenza di una metafora dell’assenza che comanda la volta del palco: la creatura divisa. Nella pièce il dissidio è rinvenibile al cospetto di una Arendt, che subito dopo un infarto, viene invitata da un presunto studente di filosofia a rilasciare un’intervista sul processo Eichmann per gli archivi dell’Università di Gerusalemme. L’altra, nella divisione del palco e dell’esistenza è nella fanciulla Hannah, la giovane studentessa di filosofia di Martin Heidegger presso l’Università di Marburgo. Sul tavolato le due donne comunicano da differenti scenari: l’appartamento di New York nel 1975, luogo dell’intervista e la baita dell’amico Raphael Mendelsonhn nel 1924. Il rifugio nella Schwarzwald (Foresta Nera) figura il latibolo amoroso, inesorabile, drammatico e adace tra la studentessa di diciotto anni e il professore di trentacinque, sposato a Elfride Preti e con due figli.
Da una lettera di Heidegger alla Arendt:
Tu rappresenti una nuova felicità per me, per la quale sono riconoscente ogni giorno. Non potrei immaginare la mia vita senza di te, senza parlarti, senza vederti, senza toccarti. Tu sei parte di me. La notte ti sogno. E ho capito che sarebbe stato così sin dal primo momento in cui sei entrata nella mia classe, con l’impermeabile e quel tuo buffo cappello calcato fin sopra gli occhi. E alla prima frase che ti è uscita di bocca ho riconosciuto le tue qualità, la tua sensibilità, l’attitudine alla ricerca, ad andare in fondo alle cose.
Nello scorrere della pièce, la suggestione segue le orme della fantasticheria nell’evocazione del poeta Rainer Maria Rilke poiché l’azzardo si svolga in un peculiare abrégé, dentro le Elegie Duinesi; distintamente l’incipit della prima: “… perché il bello è solo l’inizio del tremendo”, poiché la liaison tra la Arendt e Heidegger non può che essere racchiusa in tale virgolettato “Il bello è solo l’inizio del tremendo”. Per entrambi, mai pensiero fu più profetico. Tutto il sentimento che investe i due amanti descrive la profezia di un’oscurità che ottenebrerà le loro esistenze per molto tempo.
Sul palcoscenico è nuovamente il conflitto ad agguantarsi la scena, con disinvoltura e guitteria si muove all’interno di Hannah, la donna dalle origini ebraiche investita da un sentimento tracotante quanto fosco per l’uomo che è sempre più vicino ad Adolf Hitler. Ma Heidegger non le parla di Nazionalismo quanto della rinascita del mito della cultura tedesca e la rassicura in merito alla questione ebraica:
Quello che dice a proposito degli ebrei è un chiaro espediente per ottenere più voti, nient’altro. Quando arriverà il momento capirà che è meglio mettere da parte la questione ebraica e concentrarsi sulla rinascita della nostra cultura. Ed è questa la cosa importante: la nostra cultura. Che non ha eguali al mondo fin dall’epoca dell’antica Grecia. E la nostra lingua, la più sublime, l’unica nella quale sono in grado di esprimere il mio pensiero.
Naturaliter, la storia porterà ambedue in altre direzioni poiché “il bello è solo l’inizio del tremendo”. La Arendt su quel palcoscenico è marionetta i cui fili sono fortemente tirati da infesti dualismi: è tedesca, è ebrea, naturalizzata statunitense sopra un suolo edificato sul livore di tutti. Un primo odio le proviene dalla Germania poiché “piccola giudea”; Israele non le riserva un trattamento migliore con un disprezzo più maturo per aver minimizzato la crudeltà di Adolf Eichmann ne l’opera “La Banalità del Male”. Libro nel quale spiega che il male di Eichmann è banale in quanto ordinario: è l’assenza di un dialogo con se stessi, una mancanza di pensieri a fare di un uomo ordinario un emblema del male. Ancora violente folate di ripugnanza per essere stata l’amante di Heidegger e infine il malanimo di un intervistatore che si rivela il figlio del suo più caro amico Raphael Mendelsohn che la crede una doppiogiochista. Un’unica chiave rende solide le fondamenta di quel palco diviso, l’amore per Martin Heidegger:
Eternamente identici…
Accadono storie che annunciano l’imminenza del dramma al primo palpebrare. Vi è una piccola voce che resta inevasa poiché emette un unico suono per una sola volta: è quella vibrazione che porta il tempo a raddurarsi per un istante impercettibile. Ogni amante si fa sordo proprio a quel momento poiché sa che “il bello è solo l’inizio del tremendo”. E quel tremendo è il migliore che possa capitare in un tutta la vita.
*La Banalità dell’Amore, Hannan Arendt e Martin Heidegger, Storia di un sentimento mai sopito, di Savyon Liebrecht, Edizioni e/o, pp 114, euro 14